“Negli ultimi tempi io e Beppe non la pensiamo più allo stesso modo. ‘Non sono io a pensarla come Beppe, è lui che la pensa come me’. Questa è una frase che i grillini conoscono bene. Quante volte l’abbiamo ripetuta nei banchetti quando venivano accusati di essere eterodiretti da Grillo e Casaleggio. Ebbene, oggi, se qualcuno mi chiedesse perché non sono più in sintonia con Beppe, gli risponderei: ‘Non sono io a non pensarla più come lui, è Beppe che non la pensa più come me'”. Così Alessandro Di Battista, nel suo nuovo libro ‘Contro’, edito da PaperFirst e in uscita domani, letto dall’Adnkronos in anteprima.
“Ho le mie idee e non le ho mai barattate per nulla al mondo. Non le ho sacrificate sull’altare della convenienza politica né su quella dell’agognata tranquillità personale”, scrive Di Battista ricordando alcuni capisaldi del suo pensiero. “Vengo accostato ai nostalgici del Conte I solo perché non mi fido del Pd – va avanti – e ho lasciato il M5S – anche in virtù del tentativo di sciogliere la propria identità in un bipolarismo che uccide la reale speranza di cambiamento”.
Nel suo libro l’ex deputato M5S ripercorre il travaglio del Movimento, il passaggio dal ‘no a Draghi’ al sì a un governo guidato dall’ex numero uno della Bce. “Sono venuto a sapere di una telefonata tra Beppe e Draghi e di una comunione di intenti tra i due. Poi è stato indetto il voto degli iscritti e io mi sono battuto alla luce del sole per il No. Sapevo che la vittoria del Sì sarebbe coincisa con la mia fuoriuscita dal Movimento e feci di tutto perché ciò non accadesse”.
Grillo “chiese un “super-ministero” per la Transizione ecologica – ricorda Di Battista – che unisse il ministero dell’Ambiente con quello della Sviluppo economico. Chiese a Draghi di esprimersi pubblicamente per dare garanzie politiche al Movimento e sostenne che la Lega dovesse restare fuori dal governo perché di ambiente non capiva nulla. Il giorno dopo, finalmente, gli iscritti poterono esprimersi. Tutti i big, Grillo incluso, spinsero per il Sì. In pochi ci schierammo ancora per il No. Risultato? Sì al 59 per cento e No al 41 per cento. Triste, ma estremamente tranquillo, ho lasciato il Movimento”.
“Non si è trattato di una mancanza di rispetto per il voto degli iscritti – chiarisce – Si è trattato di non perdere la stima di me stesso. Il giorno seguente venne comunicata da Draghi la lista dei ministri. C’erano Brunetta, Carfagna e Gelmini, tutti e tre ministri dell’ultimo governo Berlusconi. C’era Giorgetti allo Sviluppo economico, un ministero che non era stato accorpato a quello per l’Ambiente come aveva chiesto Grillo, e del governo, come previsto, faceva parte pure la Lega”.
“Lasciare il Movimento 5 Stelle è stato doloroso -dice Di Battista nel libro-. Allo stesso tempo, è stata una scelta naturale, presa senza alcun rimpianto. Come nel 2013 fu naturale candidarmi alla Camera dei Deputati con il Movimento, così è stato naturale farmi da parte quando si è deciso di sostenere il governo Draghi, un governo che sento il dovere di contrastare in virtù della sua genesi, della sua composizione, dei ministri designati, delle politiche portate avanti dai partiti che lo sostengono e, soprattutto, in virtù delle decisioni che ha assunto il presidente del Consiglio da direttore generale del Tesoro, da governatore di Bankitalia e da presidente della bce”.
“Quella con il Movimento 5 Stelle è stata un’indimenticabile storia d’amore. Il Movimento l’ho amato alla follia. Per anni siamo andati d’accordo, poi qualcosa si è rotto. È vero, io non ho vissuto in prima linea il Movimento 5 Stelle al governo. Mi mancano alcuni elementi e non ho avuto la possibilità di conoscere quella ‘complessità’della quale, spesso, mi hanno parlato i miei ex colleghi. Certamente amministrare è estremante complesso, tuttavia alcune scelte politiche sono semplici. Sono le scelte di campo: o si sta da una parte o dall’altra”, tira dritto l’ex esponente M5S.
“A Gianroberto”. Alessandro Di Battista dedica il suo ‘Contro! – perché opporsi al governo dell’assembramento’ al cofondatore del M5S scomparso nell’aprile del 2016. Nel testo, Casaleggio viene definito dall’ex deputato M5S “un secondo padre”. Del cofondatore del Movimento, Di Battista ricorda anche come fosse “estremamente critico nei confronti dell’Ue e di Draghi”.
“Agli Stati Generali del Movimento 5 Stelle – che si sono tenuti nel novembre 2020 – avevo posto, legittimamente, alcune questioni politiche. Le avevo poste in quanto portavoce di migliaia di persone che reputavano quelle istanze fondamentali per il rafforzamento del Movimento. Non avevo chiesto un posto, ma garanzie”, dice l’ex deputato ricordando nell’ordine tutte le sue richieste, dalla conferma del limite al doppio mandato -regola aurea del Movimento- alla collazione autonoma dei 5 Stelle alle prossime politiche, ma anche la revoca delle concessioni ai Benetton, garanzie per una legge sul conflitto di interessi e trasparenza sulle nomine. “Nei giorni successivi – ricorda – non ho ricevuto alcuna risposta. Eppure, ripeto, non avevo avanzato alcuna richiesta personale. Il silenzio dei “vertici” venne interrotto solo da qualche velina inviata ai giornali per informarmi del fatto che tali richieste fossero irricevibili. Ero molto irritato”.
“Vito Crimi aveva deciso di non pubblicare il numero dei voti preso da ciascun delegato, sebbene moltissimi iscritti lo avessero richiesto. Enrico Mentana, una settimana dopo la fine degli Stati Generali, ha scritto: ‘Trovo davvero sconcertante che una forza che ha fatto del confronto online in tempo reale con gli iscritti e della trasparenza dell’azione politica i suoi cavalli di battaglia non abbia ancora comunicato nulla sull’esito dei suoi Stati Generali, finiti ormai da una settimana, e che nemmeno ancora si sappia quanti voti avevano avuto i delegati ammessi’. In molti hanno sospettato che la mancata pubblicazione del numero delle preferenze date ai delegati fosse legata al risultato che avevo ottenuto io. «A pensare male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina», diceva Andreotti”.
Ma sulla questione del voto degli attivisti hai delegati “non ho fatto – racconta Di Battista nelle pagine di ‘Contro’ – Mi interessavano, ovviamente, molto di più le questioni politiche che avevamo sollevato agli Stati Generali. Non ero neppure particolarmente irritato per la scelta della guida collegiale al posto del Capo politico. L’ho sempre reputata un’opzione più conforme al Movimento, sebbene molti portavoce – non tutti – la stessero sostenendo solo perché terrorizzati dal fatto che Capo politico potessi diventarlo io, che comunque avevo preso la mia decisione: sarei ripartito”.
“A Marina di Bibbona, a casa di Beppe, provai a convincere i miei ex colleghi che governare con quel pd, senza prima aver alzato la posta e senza accordi chiari, sarebbe stato molto pericoloso, ma ero minoranza. Per amor di verità Luigi Di Maio, in quella fase, la pensava come me, infatti cercò di alzare l’asticella il più possibile ma non trovò molte sponde, né durante quella riunione e neppure nel gruppo parlamentare. Fu un errore”, si legge in un altro passaggio del libro.
“In quel momento il Movimento aveva un potere contrattuale immenso. D’altronde, pur di tornare al governo, gli esponenti del Pd, che senza poltrone ministeriali pare proprio non riescano a vivere – accusa l’ex deputato M5S – avrebbero accettato di tutto. Gli avremmo potuto chiedere indietro milioni di euro intascati come rimborsi elettorali. Li avremmo potuti costringere a votare, durante il primo mese di governo, una legge sul taglio degli stipendi. Li avremmo potuti inchiodare sul tema del conflitto di interessi, obbligandoli a risolverlo rapidamente. Avremmo potuto porre come condizione la revoca delle concessioni autostradali. Se i dirigenti del Pd avessero accettato, avremmo vinto una partita storica. Se, come credevo, si fossero opposti, in caso di elezioni avremmo avuto un’autostrada davanti. Oltretutto se fossimo andati al voto, ci saremmo sbarazzati una volta per tutte di Renzi. Ma invece si optò per il Conte bis e la storia è andata come è andata”.
E ancora: “Quando ho cercato di oppormi al governo con il Pd sono stato descritto come nostalgico di Salvini, sebbene fossi stato io l’esponente del Movimento a essersi scontrato di più con lui durante il Conte I. Di certo, nonostante fossi scettico, nonostante avessi già in programma una serie di progetti tra cui un documentario da girare in Persia, nonostante sapessi che la cosa avrebbe pregiudicato la mia credibilità, ho comunque dato disponibilità a entrare nel governo. ‘Questa volta ci dovrai stare anche tu’, mi disse Luigi Di Maio e io accettai. Lo feci esclusivamente pensando al bene del Movimento”.
“Stefano Patuanelli, che stava trattando per conto di Luigi Di Maio la composizione del governo – scrive l’ex deputato M5S – mi chiamò uno di quei giorni e mi disse: ‘Il Pd ha posto un veto su di te’. Al che risposi che lo prendevo come un attestato di stima. Lui sorrise, dicendomi che il modo di sbloccare la situazione c’era. Era far entrare la Boschi nel governo. ‘Quelli del Pd hanno detto che tu li hai attaccati troppo, quindi se entri tu deve entrare anche la Boschi’. Io non ci pensai un istante. Non pensai a mia madre e alla sua probabile delusione. Non pensai alla mia famiglia, alla scuola di Andrea. Pensai al Movimento e dissi a Patuanelli che già avevo mille dubbi sul governo con il Pd, se poi avessimo anche permesso il rientro nel Consiglio dei ministri della Boschi, sarebbe stato un dramma”.
Segue una lunga serie di accuse contro l’esponente di Iv e fedelissima di Matteo Renzi. “Come avrei potuto permetterle di tornare ministro? – scrive Di Battista – Dissi a Stefano quel che pensavo e che penso tuttora. ‘Chi ha il 33 per cento non può accettare veti da chi ha preso il 18 per cento. Ad ogni modo, se per far entrare me dobbiamo accettare la Boschi, meglio star fuori entrambi’. Stefano mi disse che lo capiva e che mi avrebbe fatto sapere”.
“Verso mezzanotte mi scrisse Luigi, dicendomi che sul mio nome c’erano stati problemi ma che avrebbe fatto un ultimo tentativo. Io sapevo che la partita era ormai chiusa. Mi disse che Patuanelli gli aveva raccontato quel che ci eravamo detti. Concluse la conversazione su WhatsApp scrivendo che le mie parole mi facevano onore. L’indomani seppi dal presidente del Consiglio, ascoltandolo in tv come tutti i cittadini italiani, la composizione del governo. Come previsto, non ne facevo parte”, racconta Di Battista.
“Ci rimasi male – ammette- . Pensai che se davvero il Movimento mi avesse voluto, ogni veto da parte del pd sarebbe stato superato. Comunque, non ebbi molto tempo per amareggiarmi e non lo ebbe neppure mia madre, colei che più di ogni altro mi avrebbe voluto vedere ministro. Si ammalò una settimana dopo il giuramento del governo Conte bis”, racconta Di Battista.
“Ero disposto a digerire i voltagabbana per derenzizzare l’esecutivo”, dice ancora Di Battista. “Pensavo, e lo penso tuttora, che tornare con Renzi fosse non solo un suicidio politico, ma anche un pessimo esempio dato alla pubblica opinione. Sarebbe significato cedere a un “ricattatore” politico professionista che, sfruttando la pandemia – il ‘j’accuse’ dell’ex deputato M5S – ovvero la difficoltà di indire elezioni, aveva brigato per far fuori un presidente del Consiglio inviso a Confindustria e al gruppo Gedi, il gruppo editoriale che fa capo agli Elkann. «Una persona può credere alle parole, ma crederà sempre agli esempi», diceva Gianroberto Casaleggio. Opporsi a un ritorno al governo dei renziani, persino a costo di tornare all’opposizione, sarebbe stato un esempio”.