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    Debito è montagna da affrontare

    “Due anni di pandemia hanno cambiato in profondità alcuni caratteri della nostra economia. Negli ultimi due anni -ha ricordato ad esempio nei giorni scorsi Federico Fubini- il risparmio privato delle famiglie e delle imprese è aumentato di 170 miliardi. Di contro, il deficit primario dello Stato è lievitato di altri 167 miliardi. Insomma, i conti personali dei più fortunati tra noi sono cresciuti come un soufflé. Mentre il debito pubblico del nostro paese ha superato di molto un livello di guardia che solo pochi mesi fa avrebbe decretato la nostra messa al bando dalla business community dei paesi e delle istituzioni che contano. 

    Ora, è ovvio che l’emergenza sanitaria ha fatto passare in sott’ordine la questione del debito pubblico che da una trentina d’anni è la pietra al collo dell’economia italiana. Ed è anche vero che la leadership europea e perfino le agenzie di rating hanno “un po’” messo da parte la loro eccessiva severità verso i debiti degli stati. Un po’, per l’appunto. Solo un po’. Come a dire che possiamo affrontare l’argomento con uno spirito meno ossessivo di prima. Ma che non possiamo rimuoverlo come se nel frattempo fosse stato cancellato dalla nostra agenda pubblica.  

    La questione è antica, e anche un filino ripetitiva. Come è noto, il nostro debito prese quelle sue forme abnormi tra la fine degli anni 70 e la prima metà degli anni 80. Avevamo l’inflazione a due cifre, il mondo del lavoro era sulle barricate e per le strade infuriava il terrorismo. Era inevitabile che in quel contesto la classe dirigente dell’epoca facesse leva sulle politiche di spesa per arginare il malcontento e cercare di riportare il paese sulla rotta giusta. E’ andata come è andata, e quel fardello ce lo siamo poi ritrovati sulle spalle per anni e anni. 

    Del resto, non è un caso che le politiche rigoriste non siano mai andate molto di moda. Almeno elettoralmente. La Malfa predicava la sobrietà repubblicana e se ne ebbe in cambio ben pochi voti. De Mita ne perse una discreta quantità evocando il “rigore” nell’83. Berlinguer cominciò la sua china discendente parlando di “austerità”. E per venire a tempi più vicini a noi, la lista allestita da Monti per le elezioni del 2013 ebbe numeri risicati e deludenti. La stessa oculatezza con cui le istituzioni europee spulcia(va)no ogni anno i nostri conti e ci richiama(va)no all’osservanza dei parametri del patto di stabilità sembra fatta apposta per alimentare, ancora oggi, un certo grado di euroscetticismo nelle nostre contrade. 

    Non sarà il caso insomma di indossare il saio del penitente. Sia per non perdere troppi consensi in un momento in cui c’è poco altro da offrire agli elettori. Sia anche perché politiche troppo austere e recessive rischiano sempre di determinare a loro volta una caduta della produzione, al modo di un cane che si mangi la propria stessa coda. Dunque, togliamo pure di mezzo gli eccessi del passato e approfittiamo del fatto che tutte quelle prediche sui nostri conti pubblici così poco in ordine almeno per qualche tempo si siano lievemente attenuate.  

    Resta però il fatto che quella montagna -il debito pubblico, appunto- è sempre lì che incombe su di noi. Ed è un’illusione pensare che prima o poi il tema non sia destinato a ritornare come il fantasma di Banquo per chiederci conto delle nostre dissipatezze di un tempo. Tanto più quando lo si confronta appunto con la floridezza dei conti più privati che restano pigramente rannicchiati nei depositi bancari o addirittura nelle cassette di sicurezza. 

    E’ ovvio che anche solo sfiorare questi argomenti rappresenta un sicuro lasciapassare per l’impopolarità. Tanto più in una fase pre-elettorale come quella dei prossimi mesi. Ma bisognerà pure che la classe dirigente prima o poi si decida ad affrontare la questione. E a cercare di sbrogliarla. Diversamente si scambierebbe ancora una volta l’incerto sorriso degli elettori di oggi con le sicure maledizioni dei loro (e nostri) figli e nipoti”. (di Marco Follini)