DAL 2019 SI ANDRÀ IN PENSIONE A 67 ANNI E, NEL 2050, INTORNO AI 70, SPIEGA IL DIRETTORE DELL’ISTAT CHE EVIDENZIA ANCHE LE DIFFICOLTÀ LAVORATIVE DEI NEO LAUREATI ED IL PRECARIATO

Non c’è niente da fare: siamo destinati a ‘rincorrere’ la pensione. Nel corso dell’audizione in Commissione Affari Costituzionali alla Camera, avvenuta nell’ambito dell’esame delle proposte di legge recanti modifiche all’articolo 38 della Costituzione (atta ad assicurare l’equità nei trattamenti previdenziali e assistenziali), il presidente dell’Istat ha affermato che dal 2019 si andrà in pensione a 67 anni e, nel 2050, intorno ai 70. Tenendo infatti conto degli scenari demografici, il presidente Alleva ha delineato “la futura traiettoria dei requisiti d’accesso al pensionamento”, proiettati sempre più avanti. “Dai 66 anni e 7 mesi in vigore per tutte le categorie di lavoratori dal 2018 si passerebbe a 67 anni a partire dal 2019 – ha osservato il presidente dell’Istat – quindi a 67 anni e 3 mesi dal 2021. Per i successivi aggiornamenti, a partire da quello del 2023, si prevede un incremento di due mesi ogni volta, con la conseguenza che l’età pensionabile salirebbe a 68 anni e 1 mese dal 2031, a 68 anni e 11 mesi dal 2041 e a 69 anni e 9 mesi dal 2051”. Poi Alleva ha sottolineato quanta fatica fanno i laureati italiani ad inserirsi nel mondo del lavoro rispetto alle generazioni che li hanno preceduti: “Nonostante la ripresa dell’occupazione in atto  le condizioni del mercato del lavoro rappresentano un elemento di criticità per le storie contributive delle nuove generazioni, caratterizzate da carriere lavorative discontinue e da un ingresso sul mercato del lavoro differito rispetto a quanto sperimentato dalle precedenti generazioni. In Italia oltre tre quarti della forza lavoro della fascia 15-34 anni è costituita da giovani che hanno 25 anni che  avendo completato gli studi si affacciano sul mondo del lavoro”. Si tratta, ha detto Alleva, di generazioni che rischiano di non avere una storia contributiva adeguata con importi pensionistici più bassi. L’occupazione atipica al primo lavoro cresce all’aumentare del titolo di studio – ha spiegato sulle difficoltà nel combattere il lavoro precario – essendo pari al 21,2% per chi ha concluso la scuola dell’obbligo e al 35,4% per chi ha conseguito un titolo di studio universitario. La quota di lavoratori temporanei, già in partenza più consistente fra i giovani, aumenta dal 1997″ e che, “tra il 2008 e il 2016, nella classe 15-34 anni, la quota di dipendenti a termine e collaboratori aumenta di 5,6 punti: dal 22,2% al 27,8%”.

M.