Il Dpcm è un atto amministrativo, dunque la Corte non può sindacarlo nelle motivazioni di adeguatezza e di proporzionalità e dichiararne l’incostituzionalità. Le motivazioni depositate oggi della sentenza 198-2021, decisa lo scorso 23 settembre, in cui la Corte costituzionale proclamava la legittimità dell’uso dei Dpcm per il contrasto al Covid “sembrano infatti eliminare definitivamente la distinzione tra norme e atti amministrativi. Affermazione non certamente eversiva ma che richiede probabilmente un ripensamento di tutti i sistemi di rapporto fra fonti del diritto e provvedimenti”. Ne parla con l’Adnkronos il costituzionalista Giovanni Guzzetta, professore ordinario di Diritto pubblico all’università di Roma Tor Vergata.
Qual è dunque la portata delle implicazioni della pronuncia della Corte? “Ormai da alcuni anni siamo entrati in una fase in cui gli strumenti dell’azione politica si moltiplicano a vista d’occhio e questo può ingenerare molta incertezza – risponde – Forse alla luce anche di questa novità sarebbe il caso che il legislatore facesse il punto e desse coordinate chiare anche a tutela dei cittadini. Perché i Dpcm diventano un modello ulteriore, un’ulteriore strada”. “La sentenza – spiega il giurista – delimita l’oggetto del proprio giudizio e dice che non entrano in gioco in questa decisione le questioni relative a possibili violazioni di riserva di legge in favore del Parlamento o previste dell’articoli 23 e 25 della Costituzione o dalle altre previsioni a tutela dei diritti fondamentali. Dunque la Consulta si limita a valutare se lo strumento Dpcm costituisca una delega legislativa impropria; conclude che non sia così perché i dpcm vanno considerati non come fonti del diritto, non come ordinanze di necessità, ma come atti amministrativi i cui presupposti di esercizio sono definiti dal decreto-legge che li prevede”.
“Ma una volta che la Corte qualifica il Dpcm come atto amministrativo – fa notare Guzzetta – non ha competenza a sindacarlo, a valutare quindi se ha rispettato i presupposti stabiliti dai decreti legge”. “Allo stesso tempo – prosegue – la Corte non si è pronunciata su possibili violazioni di riserva di legge. Il punto problematico, che forse non spettava alla Corte sciogliere, è che il presupposto per l’emanazione dei dpcm sono valutazioni di adeguatezza e proporzionalità rispetto alla gravità epidemica”, per cui il presidente del Consiglio sceglie l’una o l’altra misura in base alla gravità della situazione pandemica, sulla base della valutazione del Comitato tecnico scientifico.
Il nodo principale “è che queste valutazioni del Cts non sono state mai rese note tempestivamente, o sono state molto generiche e la motivazione di adeguatezza e di proporzionalità non è mai stata sindacabile da parte del Parlamento. Persino a volte da parte dei giudici. Ma la Corte – osserva Guzzetta – non poteva entrare nel merito perché qualifica i Dpcm come atti amministrativi, aprendo ovviamente ad una serie di conseguenze di ordine generale”. Tra queste “il problema del presupposto di esercizio di questi atti amministrativi. La sola base fondata su adeguatezza e proporzionalità è fragile e quindi – suggerisce il professore di Tor Vergata – richiederebbe che non gravasse tutto sulle spalle del presidente del Consiglio. La distinzione tra discrezionalità amministrativa e scelta politica in taluni casi di incertezza dei presupposto è veramente molto sottile”.
(di Roberta Lanzara)