Ci stiamo avvicinando sempre di più alla Fase 2 relativa alla emergenza coronavirus, e nel mentre ci si interroga su come funzionerà, quali saranno le regole principali da seguire, per esempio, a lavoro e a scuola e nei luoghi pubblici, il percorso graduale verso il ritorno alla normalità viene sempre più scandito da alcuni concetti, o per meglio dire abitudini di vita, sociale, privata e professionale, che non ci lasceranno per un bel pò.
Una è quella relativa alle mascherine: continueremo ad usarle, e anche se tanti si domandano fino a quando il dato è inequivocabile. Servirà tempo.
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Un altro dei temi è quello del buon esito del cosiddetto smart working, ovvero lavoro agile o, per altri versi, lavoro da remoto e a distanza. In pratica, per ora, si lavora da casa perchè i luoghi di lavoro sono inaccessibili per quarantene e isolamento.
In tantissimi casi a onor del vero, questo tanto vituperato smart working (“chi lavorerà davvero da casa?”, si chiedevano in molti, sbagliando) ha prodotto eccellenti risultati in termini di produttività, e c’è anche una certa convenienza dietro la continuità di una procedura che sembra dover diventare, se non fissa, ancora una abitudine professionale per diverso tempo da qui in avanti.
Coronavirus, smart working e diritto alla disconnessione
Il fatto è che, in effetti, lavorare da casa implica la connessione in tempo reale dei dipendenti con l’azienda, e questo, tramite app, cellulari, smartphone o PC, porta in moltissimi casi ad una migliore ottimizzazione del tempo di lavoro e anche ad un aumento del lavoro e dei tempi stessi di lavoro.
In pratica, si è sempre connessi (o quasi) e ci si interfaccia a distanza tra riunioni e conference call tutto in virtuale, messaggi e comunicazioni via WhatApp o chat e via discorrendo. Tanto che, spesso oltre le ore di lavoro, il dipendente continua a ricevere indicazioni, informazioni, e ordini di produzione. E’ corretto?
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Da qui si è sviluppato un dibattito, di cui in diversi hanno parlato abbastanza in queste ore proprio in termine di lavoro: il cosiddetto diritto alla disconnessione. Di cosa stiamo parlando? Che cos’è il diritto alla disconnessione?
Coronavirus, smart working, cos’è il diritto alla disconnessione e a che serve
L’evoluzione tecnologica è entrata sempre di più al centro di moltissime attività lavorative e negli ambiti di organizzazione aziendale e contesti lavorativi in questi giorni di isolamento da coronavirus. Ed è per questo che, per appunto, accanto a quello dello smart working si fa largo il concetto, applicato alle contingenze attuali dovute alla pandemia del covid-1 del cosiddetto diritto alla disconnessione. In cosa consiste esattamente?
Tramite l’utilizzo di smartphone, cellulari, e-mail, chat in tempo reale e altri programmi di messaggistica o di conference call live, si può oggi produrre una quantità di lavoro maggiore di quella che, di norma, si ottiene nelle normali ore di lavoro.
Il centro di tutto è la connettività in tempo reale e la cosiddetta ottimizzazione del tempo. Niente code in auto, niente orari di bus e treni, niente ritardi. Basta accedere un pc o uno smartphone e si è connessi e operativi.
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Ma, perchè c’è sempre un ma, si corre il rischio che il lavoratore non abbia più la possibilità di poter usare il proprio tempo libero senza l’invasiva presenza del proprio capo. L’uso di questi strumenti di collegamento tra datore di lavoro e dipendente si presenta come una chance ottimale, se ben usata. Perchè permette una flessibilità della prestazione lavorativa in quanto consente di lavorare anche in un luogo diverso da quello dell’azienda, come da casa, come succede ora a migliaia di italiani costretti all’isolamento e alla quarantena.
Ma dietro il rischio di essere sempre connessi con il datore, c’è anche l’ombra di possibili abusi. Ecco perché, in risposta a questa problematica, in queste ore diversi analisti, in funzione della crescita (che durerà ancora molto) dello smart working, si diffonde il tema già noto come diritto alla disconnessione, la cui espressione conduce proprio il diritto a non abusare delle apparecchiature che connettono in modo costante e senza soluzione di continuità il lavoratore alla propria prestazione lavorativa.
Diritto alla disconnessione: cos’è? Disconnessione e reperibilità, differenze
Il diritto alla disconnessione nasce della necessità, molto attuale in questi giorni, che il lavoratore debba poter lavorare da ‘remoto’, come si dice, e dunque debba essere reperibile anche se lontano dal luogo aziendale, rispetto ai contatti col capo.
Nello stesso momento però, per appunto, il lavoratore ha diritto a staccare la spina dal proprio lavoro almeno durante il tempo libero, malgrado l’uso di smartphone, app di messaggistica istantanea, notifiche e-mail in tempo reale lo portano ad uno stato di connessione perenne. In poche parole, il diritto alla disconnessione vuol dire diritto alla irreperibilità.
Dunque, vi è un momento della giornata in cui il lavoratore ha diritto a non essere connesso a nessun dispositivo, poiché, specialmente nei lavori in modalità smart, la possibilità di “scollegarsi” dalle faccende lavorative diventa sempre più difficile per via di comunicazioni in tempo reale tramite chat, app, WhatsApp e i vari Skype del genere.
Il diritto alla disconnessione trova il primo riconoscimento legislativo in Francia nel 2016, dove la “Loi du Travail” prevede espressamente che le aziende con un numero di dipendenti superiore a 50 si impegnino, tramite accordi interni, a regolamentare il tempo libero (quello “offline”), del personale dipendente e prevede, altresì, che al dipendente non possano essere inviate e-mail, comunicazioni, messaggi o telefonate al di fuori dell’orario di lavoro.
Diritto alla disconnessione in Italia
In Italia il diritto alla disconnessione non è ancora regolarizzato come in Francia. L’unico riferimento è oggi presente nella legge del 2017 sul lavoro agile che prevede espressamente che: “nel rispetto degli obiettivi concordati e delle relative modalità di esecuzione del lavoro autorizzate dal medico del lavoro, nonché delle eventuali fasce di reperibilità, il lavoratore ha diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche di lavoro senza che questo possa comportare, di per sé, effetti sulla prosecuzione del rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi”.
Mentre in Francia la disconnessione è qualificata espressamente come un diritto, così non è nel sistema italiano. Malgrado questo, la disconnessione ha già conosciuto alcune esperienze applicative, ben prima che scoppiasse la pandemia: specie in ambiti lavorativicioè la disconnessione è stata regolamentata attraverso accordi collettivi aziendali.
Ne sono un esempio l’accordo siglato tra la Barilla e le organizzazioni sindacali il 2 marzo 2015, che prevede come «durante lo svolgimento dello Smart working, nell’ambito del normale orario di lavoro, la persona dovrà rendersi disponibile e contattabile tramite gli strumenti aziendali», a conferma del fatto che la disconnessione dovrebbe essere garantita in tutto l’arco temporale che eccede tale orario.
C’è poi l’accordo di Enel del 4 aprile 2017, dal quale si evince che «il lavoro agile rappresenta una mera variazione del luogo di adempimento della prestazione lavorativa», e non dell’orario di lavoro. Di conseguenza il dipendente è tenuto ad essere a disposizione del datore di lavoro durante l’orario di lavoro ordinario e, pertanto, in quel periodo di tempo deve essere contattabile dal suo responsabile tramite gli strumenti tecnologici messi a sua disposizione.
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