Consulenti lavoro: smart working divide italiani, tra criticità e vantaggi

Lo smart working divide gli italiani, condizionati dalle modalità con cui è stata vissuta l’esperienza e, soprattutto, dal contesto familiare e domestico in cui si è svolta. Il bilancio è positivo sul fronte dell’aumentata possibilità di conciliare i tempi di vita e di lavoro ma, insieme, emergono criticità che possono avere effetti anche sul clima aziendale e sulle relazioni di lavoro, fino ad arrivare alla disaffezione. È quanto emerge dal capitolo ‘Smart working, una rivoluzione nel lavoro degli italiani’, contenuto nel Rapporto ‘Gli italiani e il lavoro dopo la grande emergenza’, che sarà presentato in occasione del Festival del Lavoro (www.festivaldellavoro.it), organizzato dal Consiglio nazionale dell’ordine dei consulenti del lavoro e dalla sua fondazione studi il prossimo 28 e 29 aprile. Il 16,7% dei lavoratori intervistati guarda allo smart working come un punto di non ritorno della propria vita professionale; oltre il 10,7% cercherebbe un qualsiasi altro lavoro pur di svolgerlo da casa. Il 43,5% si adatterebbe al ritorno in ufficio, ma 4 su 10 sarebbero contenti di tornare a lavorare tutti i giorni in presenza.
 

L’esperienza dell’ultimo anno è stata, infatti, vissuta in modo molto diverso da giovani e adulti, da lavoratori con figli e senza. In termini relazionali e di carriera gli uomini sembrano aver patito maggiormente il lavoro da casa (52,4% contro 45,7% delle donne), guadagnando però in produttività e concentrazione. Viceversa, le donne hanno sofferto l’allungamento dei tempi di lavoro (57% contro il 50,5% degli uomini) e l’inadeguatezza degli spazi casalinghi (42,1% contro 37,9%), evidenziando un maggior rischio di disaffezione verso il lavoro (44,3% rispetto al 37% dei colleghi). Ma se lo smart working ha permesso 6 volte su 10 di conciliare meglio professione e vita privata, non è stato così per chi aveva maggiori carichi familiari. In primis le coppie, il cui work-life balance è peggiorato per il 43% del campione. Ma l’home working ha avuto anche ricadute pratiche, in termini di spesa e disturbi fisici legati a postazioni domestiche inadeguate. 

Il 71,1% dichiara di aver diminuito le spese per spostamenti, vitto e vestiario, investendo in consumi legati al tempo libero nel 54,7% dei casi, ma il 48,3% paga il conto per l’utilizzo di sedie e scrivanie improvvisate e il 39,6% lamenta l’inadeguatezza degli spazi e delle infrastrutture, come i collegamenti di rete. L’indagine, in sostanza, conferma, da una parte, un maggiore ricorso al lavoro agile tra i lavoratori più qualificati e le grandi aziende (terziario, servizi alle imprese, credito e assicurazioni) e, dall’altra, una resistenza legata ad una cultura organizzativa del lavoro orientata ancora su modelli tradizionali. Al centro i lavoratori sotto i 35 anni, per i quali non si può più tornare indietro. “La varietà delle casistiche riportate all’interno del Rapporto -afferma Rosario De Luca, presidente della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro- evidenzia la necessità di ripensare alla regolazione del lavoro subordinato, auspicabilmente lasciando alla contrattazione collettiva il compito di rintracciare le migliori soluzioni per contemperare le richieste di imprese e lavoratori. Sarà interessante confrontarsi anche su questo tema con il mondo della politica, delle imprese e delle parti sociali durante il Festival del Lavoro”, conclude.  

Impostosi con la pandemia per garantire tramite il distanziamento la sicurezza dei lavoratori, il lavoro da remoto, nelle sue tante e diversificate forme, si è diffuso come modello organizzativo in molte aziende, modificando stili di vita e di lavoro di tanti italiani. Ad aprile 2021, circa 7,3 milioni di lavoratori (il 31,7% del totale), quasi uno su tre, lavora da casa: il 14,8% in forma esclusiva, non andando mai in sede; il 16,8% in modalità ibrida, alternando giorni o settimane in presenza e a distanza. Lo smart working interessa i lavoratori dipendenti, ma ancora di più gli autonomi: tra i primi la quota di smart workers si attesta al 30,7% mentre tra gli autonomi arriva al 38,1%, con una differenza rilevante quanto a radicamento dell’esperienza. Tra i dipendenti, solo il 3% lavorava da casa anche da prima della pandemia, per lo più saltuariamente mentre tra gli autonomi, lo faceva il 18%; con la pandemia, tale quota è cresciuta di ulteriori 20 punti percentuali. Complessivamente, si stima che siano 1,9 milioni i lavoratori autonomi che lavorano da casa, stabilmente o in modalità alternata, e 5,4 milioni i dipendenti.  

Tra quanti – e sono la maggioranza (68,3%) – continuano ad ‘andare in ufficio ogni giorno’ il 35,2% lo fa perché occupato in attività che non possono essere svolte altrimenti che presso la sede di lavoro, mentre un altro terzo (33,1%) indica motivi diversi: per lo più perché, pur esercitando un’attività che può essere svolta a distanza, preferisce andare al lavoro (10,6%) o perché nell’organizzazione in cui lavora non è data possibilità di lavorare da casa (14,5%). Considerando quindi il potenziale attivabile, il numero di lavoratori a distanza potrebbe raddoppiare, arrivando a interessare quasi due lavoratori su tre (64,8%)
 

In Italia oggi la quota di smart workers arriva al 52,2% tra i laureati, mentre scende al 13,5% tra chi ha un titolo di studio inferiore al diploma; raggiunge il 54,6% tra chi lavora in aziende o organizzazioni terziarie, di servizio alle imprese, credito e assicurazioni, per scendere al 37,8% nella PA, al 27,9% nell’industria e al 21,2% nel commercio e distribuzione, dove pure vi è una quota di lavoratori a distanza, sebbene in modalità prevalentemente ibrida. Numerose analisi condotte hanno già messo in evidenza le caratteristiche prevalenti di tale modalità di lavoro, che interessa i segmenti più qualificati dell’occupazione rispetto a chi svolge attività di prossimità o manuali, le grandi aziende più delle piccole, e alcuni settori più di altri. Tutte tendenze che trovano, appunto, ulteriore conferma nell’indagine.  

Anche le dimensioni dell’azienda risultano una variabile importante, secondo i consulenti del lavoro, nel determinare maggiore o minore ricorso allo strumento: la percentuale di occupati a distanza passa infatti dal 14,2% delle piccolissime imprese, con meno di 5 addetti, al 22,3% di quelle con 6-50 addetti, al 27% di quelle con 50-250 addetti, fino al 43,4% delle aziende più grandi, con oltre 250 addetti. In questo caso, tuttavia, le differenze, più che dipendere dalle varie mansioni svolte dai lavoratori, o dalla natura dell’impresa (più artigiane e commerciali), sono riconducibili al prevalere di una certa resistenza verso lo strumento, che si ripercuote anche sulle scelte dei lavoratori: quasi un quarto (23,7%) dei dipendenti delle piccolissime imprese afferma infatti che pur svolgendo un lavoro che può essere fatto da casa, l’azienda non prevede tale possibilità; a tale quota si aggiunge un altro 18,3% che parallelamente, preferisce recarsi in ufficio, pur potendo svolgere il proprio lavoro da casa, confermando l’esistenza di una cultura organizzativa orientata ancora su modelli tradizionali. Al crescere delle dimensioni dell’azienda entrambe le componenti si ridimensionano, interessando rispettivamente l’11,5% e 7,5% degli occupati delle aziende con oltre 250 addetti 

Il lavoro da casa non sembra raccogliere entusiasmi così diffusi tra gli italiani, e soprattutto marcare nette differenze, almeno in termini di gradimento, rispetto a quello in sede. Alla richiesta infatti di indicare quanto siano contenti della propria situazione, si dichiara complessivamente contento il 52% dei lavoratori “remoti” e il 50,3% di quelli che si recano ogni giorno in presenza. Ma le valutazioni degli smart workers appaiono molto più polarizzate, tra chi è entusiasta e chi non ne può più: a fronte del 16,1% che afferma di essere molto soddisfatto, tra i lavoratori in sede la percentuale scende al 10,4%. Parallelamente, risulta molto più alta l’area dell’insofferenza: il 17,2% non è per nulla contento di tale situazione, mentre tra chi si reca ogni giorno in ufficio la percentuale scende al 10,1%. Un giudizio quindi fortemente divisivo, che spacca a metà i lavoratori, risultando condizionato dalle modalità con cui è stata vissuta l’esperienza e, soprattutto, dal contesto famigliare e domestico in cui questa si è svolta. A marcare di più la differenza tra contenti e non sono infatti l’adeguatezza o meno degli spazi domestici, e l’opportunità di conciliare meglio vita e lavoro in famiglia: tutti fattori che hanno fortemente diversificato l’esperienza dei ‘lavoratori remoti’, determinando esiti conseguenti.  

Chi ha avuto più difficoltà, ad attrezzarsi, a collegarsi, a gestirsi con i figli a casa, non solo “boccia” lo smart working, ma inizia anche ad avvertire in misura rilevante un senso di marginalizzazione rispetto alle dinamiche aziendali, penalizzazione della carriera e vera e propria disaffezione verso il lavoro. In un circolo vizioso causa-effetto, in cui questi ultimi fattori, finiscono per condizionare al tempo stesso l’esperienza di lavoro casalingo, evidenziandone i fattori di criticità. Non stupisce pertanto che circa quattro lavoratori su dieci siano contenti all’ipotesi di tornare a lavorare tutti i giorni in presenza; il 43,5% non lo sarebbe, ma si adatterebbe alle nuove condizioni, mentre il 16,7% guarda ormai allo smart working come un punto di non ritorno della propria vita professionale: il 10,7% cercherebbe infatti un qualsiasi altro lavoro pur di continuare a lavorare da casa, il 4,5% sarebbe disposto a farsi abbassare lo stipendio e l’1,5% addirittura dimettersi.