Sono tre gli obiettivi che l’Unione Europea, la potenza ‘erbivora’ che fa da capofila nella lotta per tagliare le emissioni climalteranti, ha messo nel mirino alla Cop26, la 26esima Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che si tiene a Glasgow e si concluderà il 12 novembre. I lavori della Cop possono ora partire da “fondamenta solide”, ha detto il presidente del Consiglio Mario Draghi al termine del G20 a Roma, dopo che le venti maggiori economie del mondo, responsabili dell’80% delle emissioni, si sono impegnate a raggiungere la neutralità climatica “entro o attorno” al 2050.
Gli obiettivi concreti della conferenza di Glasgow sono tre. Primo, fare quanto è necessario per mantenere il riscaldamento del pianeta intorno a 1,5 gradi centigradi, rispetto ai livelli preindustriali, come previsto dall’accordo di Parigi del 2015. E, per mantenere questo obiettivo in vista, servono più sforzi già in questo decennio, come ha detto la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen. Insomma, chi ha preso impegni lontani nel tempo dovrebbe presentare anche piani intermedi e concreti per attuarli, agendo già in questo decennio.
Secondo, mobilitare la finanza climatica, cioè gli aiuti finanziari dei Paesi più sviluppati (in gran parte responsabili del riscaldamento del pianeta) nei confronti di quelli più poveri, per aiutarli a passare ad un’economia meno inquinante, riuscendo a consegnare 100 mld di dollari l’anno già a partire dal 2022, e non dal 2023. Terzo, trovare un accordo sul ‘rulebook’, l’insieme delle regole che, su base scientifica, consentiranno di misurare le emissioni climalteranti e lo scambio di quote delle stesse tra i Paesi, evitando i doppi conteggi. E’ la parte più tecnica e complicata del negoziato, ma anche quella sulla quale a Bruxelles si respira un certo ottimismo.
Per il primo, l’obiettivo di tagliare le emissioni di più già in questo decennio, il gap che va colmato è stimato a 28 gigatonnellate di emissioni climalteranti di qui al 2030 (una gigatonnellata equivale ad un miliardo di tonnellate), per consentire di mantenere il riscaldamento del pianeta sotto i 2 gradi centigradi e, idealmente, a 1,5 gradi. E’ una quantità significativa ma, a quanto si è appreso a Bruxelles, non è considerata fuori portata.
Le chance di successo sono aumentate notevolmente con l’amministrazione di Joe Biden: con Donald Trump alla Casa Bianca, le possibilità di arrivare ad un accordo significativo con la Cop26 erano pari a zero. Ora non è tutto risolto, anche perché gli Usa non sono l’unico Paese che conta in questa partita, ma le possibilità di riuscita non sono più nulle.
Se tutti gli impegni già presi dai vari Paesi in termini di taglio delle emissioni verranno rispettati, il riscaldamento globale dovrebbe attestarsi a 2,2 gradi centigradi, rispetto ai livelli preindustriali (l’accordo di Parigi non specifica quali siano esattamente: è un tema ancora discusso a livello scientifico). Una riduzione compresa tra 10 e 15 gigatonnellate, che dovrebbe essere sufficiente a contenere il riscaldamento globale entro i 2 gradi centigradi, è considerata a Bruxelles come raggiungibile relativamente a breve, forse già nel corso della conferenza di Glasgow o poco dopo. Ma non basta: l’obiettivo, non facile, è 1,5 gradi. L’Ue ha approvato una legge sul clima che prevede la neutralità in termini di emissioni nocive entro il 2050 e ha presentato un ampio pacchetto legislativo, il Fit for 55, che dovrebbe consentire di tagliare le emissioni climalteranti (Co2, metano e altri) del 55% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030, fissando così un obiettivo a medio termine, vincolante.
Per far sì che l’obiettivo di 1,5 gradi non rimanga una chimera, altre grandi economie devono prendere impegni (Ndc, Nationally Determined Contributions) più stringenti di quelli presi finora. “Servono impegni sufficienti per tagliare davvero le emissioni in questo decennio – ha detto von der Leyen – la scienza è molto chiara: è urgente. La scienza ci dice che il cambiamento climatico è prodotto dall’uomo, quindi possiamo fare qualcosa, ma dobbiamo agire”.
Mentre gli Usa con Biden hanno fatto più o meno quanto ci si aspettava da loro, lo sguardo dei negoziatori è rivolto ad altri grandi Paesi, in particolare a Cina e India, i due giganti asiatici, ma anche a Messico, Brasile, Indonesia, Sudafrica, Arabia Saudita, Russia. La probabile assenza del presidente cinese Xi Jinping non promette bene, ma a Bruxelles si sottolinea che la posizione cinese si è evoluta, che Pechino è considerata sul clima un partner affidabile e che ci si aspetta qualcosa dal primo Paese al mondo per popolazione.
Già l’impegno preso da Xi di non finanziare più centrali elettriche a carbone fuori dai confini nazionali è significativo. Ora ci si aspetta qualche impegno per quanto concerne le centrali elettriche a carbone in Cina. Pechino ha già rallentato il ritmo a cui realizza nuove centrali a carbone per alimentare la propria crescita economica. Questo rallentamento del ritmo è sufficiente a che l’aumento corrispondente della domanda di gas da parte del gigante asiatico incida a livello mondiale: è uno dei fattori alla base dei rincari del gas naturale di queste settimane, che si sono fatti sentire in Ue e anche nel Regno Unito, che ha dovuto riaccendere due centrali a carbone.
Sulla finanza climatica, l’Ue premerà sugli Usa perché accelerino, in modo da poter disporre di 100 mld di dollari annui già a partire dal 2022, e non dal 2023 come attualmente previsto. L’Ue ha aumentato il proprio contributo di 4 mld: Washington ha coperto una parte significativa del proprio gap, ma non tutta, e l’Ue preme perché agisca. Certo, mancano ancora dei soldi, ma appena qualche anno fa non si era affatto vicini ad un impegno a tre cifre sulla finanza climatica, si nota a Bruxelles. Una parte del negoziato su questo punto riguarderà anche quanti soldi andranno all’adattamento dei Paesi poveri al cambiamento climatico, e quanti invece alla mitigazione climatica. Mentre la mitigazione è tutto quello che affronta le cause del riscaldamento globale, l’adattamento è tutto ciò che è necessario per adeguarsi alle nuove condizioni climatiche.
Il terzo punto, le regole, sono il capitolo più tecnico, ma anche uno dei più importanti. Un accordo è indispensabile per stabilire uno standard comune di conteggio delle emissioni, in modo che i Paesi si possano fidare gli uni degli altri. Una parte cruciale del negoziato riguarderà quante delle quote di emissione attualmente in circolazione verranno ‘travasate’ nel nuovo sistema: se venissero trasferite tutte, annacquerebbero irrimediabilmente gli impegni. E possibile che si arrivi ad un compromesso, con una parte dei vecchi permessi portati a nuovo. Un accordo sul ‘rulebook’ è indispensabile, per iniziare a lavorare davvero sugli obiettivi.
Von der Leyen parteciperà ad alcune iniziative collaterali alla Cop26. Con Joe Biden lancerà un impegno per ridurre entro il 2030 almeno del 30% le emissioni di metano (gas più dannoso per il clima della Co2) e con Bill Gates un’iniziativa per finanziare le tecnologie verdi e aiutare a portarle sul mercato. L’Ue poi, insieme ad altri, aiuterà il Sudafrica ad accelerare la propria uscita dal carbone, con una partnership che potrebbe essere replicata in altre parti del mondo. La Cop26 domani e martedì vedrà a Glasgow i capi di Stato e di governo, che lanceranno in due giorni i messaggi politici necessari a dare il quadro alla Conferenza, per poi lasciare il campo ai negoziatori, fino al 12 novembre. Nella speranza che riescano a trovare un accordo, sotto le nuvole autunnali della Scozia. (dall’inviato Tommaso Gallavotti)