Sono passati 35 anni dalla morte di Enrico Berlinguer. Un addio triste, e clamoroso anche nelle modalità, con il noto politico ancora voglioso di continuare l’intervento pubblico durante il quale fu colto da malore, lo stesso che poi lo condurrà al triste epilogo. Ma chi era, in effetti, il leader del Pci?
Enrico Berlinguer è considerato universalmente una delle figure politiche di più alto prestigio storico, al di là delle differenti vedute politiche.
La sua carriera politica nel Pci inizia nel gennaio del 1948. Enrico Berlinguer aveva ventisei anni, e entrava nella direzione del partito. Una figura di tale spicco che non poteva passare da troppe anticamere: infatti, meno un anno dopo diventa segretario generale della Fgci, la Federazione giovanile comunista.
Nel 1956 Enrico Berlinguer, lasciava l’organizzazione giovanile e l’anno dopo si univa in nozze a Roma con Letizia Laurenti. Ma l’escalation politica era solo all’inizio.
Nel 1958 Enrico Berlinguer entrava nella segreteria del partito per mettersi al fianco di Luigi Longo, vicesegretario e responsabile dell’ufficio di segreteria. Da lì, il feeling tra Berlinguer e il segretario Togliatti diviene quotidiano. Un vincolo formativo di assoluta rilevanza per Enrico Berlinguer.
Fra il 1964 e il 1966 Berlinguer si mette in mostra per la capacità di mediazione nel frapporsi tra le fazioni di un rilevante scontro interno al partito. La destra del Pci, sostenuta da Amendola, indicava la creazione di un unico partito socialista che unisse tutte le forze della sinistra italiana.
Dall’altra parte la corrente radicale di Pietro Ingrao premeva sicché il Pci si alleasse con i gruppi della sinistra rivoluzionaria. Da lì, la svolta.
All’XI Congresso, nel gennaio del 1966, Berlinguer si fece interprete delle velleità e delle premure del partito nella sua interezza arrivando a presentarsi come mediatore e quel che ottenne fu un trionfo personale con indirizzi che fecero da collante.
Il suo aumento di popolarità e il suo ascendente verso l’intero del partito e verso l’elettorato si confermarono due anni dopo dalle elezioni del 1968 in cui è capolista nel Lazio, quando venne eletto per la prima volta alla Camera dei Deputati.
Il mondo stava dando indicazioni molto rilevanti, a quel tempo. Dalle vicende di Praga, Enrico Berlinguer ne trae una indicazione: condannando l’intervento sovietico in Cecoslovacchia arriverà a rifiutare l’idea che potesse sussistere “un modello di società socialista unico e valido per tutte le situazioni”.
Si tratta, come si evince, di una vera scissione ideologica. Una spaccatura che non ha precedenti. Nel 1969 a Mosca, alla conferenza internazionale dei partiti comunisti, Enrico Berlinguer, ufficializza in modo chiaro il proprio dissenso, in merito alla politica stalinista. Al congresso del 1969, poi, Berlinguer sostiene la linea movimentista e avvia una svolta epocale del suo intero programma politico.
Propone il partito come una forza perno della società italiana, che voglia inserirsi tra le istituzioni e i cittadini, ma che venisse interpellata nelle faccende della gestione della cosa pubblica e nelle decisioni democratiche del paese perché, sostiene, ne è parte decisiva e anche corposa.
Il Pci sognato da Enrico Berlinguer è diverso. Non solo un partito della classe operaia: ma un movimento che voglia aspirare a guidare il paese, tutto il paese, concludendo le annose questioni di disparità e differenziazioni tra comunisti e il resto del paese. Sicché, di fatto, anche i comunisti si liberassero di quel fardello che allora rientrava nella ‘convenzione’ ad ‘escludere’ il Pci da tutti i processi decisionali, e dunque di fatto da ogni possibilità di andare al governo.
E’ la chiave di volta. Nel 1972 Berlinguer diventa segretario del Pci e al XII congresso rilancia la tesi togliattiana della collaborazione fra le grandi forze popolari: comunista, socialista e cattolica.
Con tre articoli su “Rinascita”, fra il settembre e l’ottobre del 1973, Enrico Berlinguer, suggerisce una interpretazione audace della società contemporanea. Lo spunto è il colpo di Stato in Cile, il cui insegnamento, per Enrico Berlinguer, era nella debolezza della democrazia.
“La gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande compromesso storico tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano”, dice, infatti.
Le sue parole fanno breccia. Arriva un grande successo elettorale per i comunisti italiani alle elezioni del 1975 e del 1976, ed è il chiaro segnale di come Berlinguer ci avesse visto lungo. Questo riscrive i concetti e i confini dell’equilibrio politico e ridisegna i limiti di una instabilità nazionale attorno alla quale la Dc in quegli anni cuore dei governi stava lavorando.
Cambia, dunque, tutta la politica italiana. Nel 1976 oltre al concetto del compromesso storico, Berlinguer incoraggia l’altro clou della sua versione della politica comunista: la rottura con il Partito Comunista sovietico.
A Mosca, davanti a 5 mila delegati Berlinguer si esprime in favore del valore della democrazia e del pluralismo, si proclama voglioso di un’autonomia del Pci dall’Urss e critica l’interferenza dei sovietici nelle questioni dei partiti socialisti e comunisti degli altri paesi.
Molti avrebbero definito quello come il momento in cui nacque l’eurocomunismo. E con questi due concetti, Berlinguer condusse il Pci, dopo le elezioni del 1976, per la prima volta al governo, quello definito come governo della solidarietà nazionale.
In pratica è un governo monocolore democristiano che però viene di fatto sostenuto dalla “non sfiducia”, delle forze esterne: in pratica, i vecchi partner di governo della Dc non avrebbero fatto battaglia da opposizione alla Dc stessa, e ad essi si sarebbero aggiunti i comunisti.
A sinistra, molti criticheranno Enrico Berlinguer perchè nonostante i compromesso storico il Pci non otterrà forse ciò che i democristiani avevano promesso come controparte dell’accordo della non sfiducia. In qualche modo questo si palesa nelle elezioni del 1977 che non vanno bene per il Pci.
Nel gennaio 1978 allora Berlinguer incontra Aldo Moro, il leader democristiano con cui ha messo su le basi del governo della solidarietà nazionale e gli chiede di favorire l’entrata dei comunisti al governo. Le opposizioni però sono tante: la corrente più a destra dei democristiani, il Vaticano, gli americani sempre dietro le quinte, e ovviamente la destra italiana.
L’Italia nel frattempo è gelata dal terrorismo: passano due mesi e le BR rapiscono e uccidono Moro. Finisce così la fase della solidarietà nazionale e del sogno di Berlinguer. Nel 1981, in un’intervista ad Eugenio Scalfari, Enrico Berlinguer, accuserà la classe politica italiana di corruzione, sollevando quella che venne ricordata come questione morale.
Nel particolare Enrico Berlinguer critica l’occupazione da parte dei partiti delle strutture dello Stato, delle istituzioni, dei centri di cultura, delle Università, della Rai, e con spavento critica il rischio che la frustrazione dei cittadini si trasformi in rifiuto della politica. Anticipando i tempi, ancora una volta.
Berlinguer, ad ogni modo, venne rispettato dagli avversari e molto amato dalla base comunista del paese. Al suo funerale, a Roma, parteciparono quasi due milioni di persone e mai nell’Italia repubblicana si era avuta una manifestazione del genere nei riguardi di un politico.
Sull’onda emotiva della sua scomparsa, il PCI alle elezioni europee del 1984 superò per la prima e unica volta la Democrazia Cristiana nei consensi (33,33% contro 32,97%. L’eco di Enrico Berlinguer è viva ancora oggi, trentacinque anni dopo la sua scomparsa.