La Presidenza di Ursula Von der Leyen alla Commissione europea era iniziata con un ambizioso programma per affrontare i problemi legati al clima e all’ambiente. Compiti fondamentali che “definiscono la nostra generazione”, ormai non più procrastinabili.
Per questo poco dopo aver formalizzato l’incarico, la presidente Von der Leyen, insieme alla Commissione europea, promosse il Green Deal, una strategia “per trasformare l’UE in una società giusta e prospera, dotata di un’economia moderna, efficiente sotto il profilo delle risorse e competitiva”. Ma soprattutto una società capace di azzerare le emissioni nette di gas a effetto serra entro il 2050 e di sganciare la crescita economica dall’uso delle risorse fossili. Una serie di misure mirate a rendere sostenibile e inclusiva l’economia dell’UE affinché “nessuna persona e nessun luogo sia trascurato”.
È un progetto ambizioso, approvato e sostenuto anche dal Parlamento europeo, ad alto contenuto politico, economico e sociale, che necessita, oltre che di una produttiva cooperazione fra diversi livelli territoriali e imprese, di una quantità tutt’altro che indifferente di soldi e investimenti.
La cifra stimata per il periodo compreso tra il 2021 e il 2027 è di mille miliardi di euro, circa cento miliardi l’anno. Uno sforzo fondamentale per accendere i motori di questa “rivoluzione” e realizzare il traguardo della neutralità climatica entro il 2050, attraverso il rispetto degli obiettivi intermedi: ridurre i livelli delle emissioni di gas del 55% rispetto a quelli del 1990 (fino al 2018 sono stati ridotti del 23%).
Per molti il Green Deal, ancora prima della diffusione del Covid-19, era “un lusso che non ci possiamo permettere”. Figuriamoci adesso che, in aggiunta alle sofferenze personali di tanti, la pandemia sta strozzando i già precari sistemi economici su cui si basano le nostre società.
In particolare oggi sembra troppo pretenzioso e imprudente chiedere ai governi di potenziare la diffusione delle energie rinnovabili e disincentivare l’uso di combustibili fossili. Soprattutto per gli Stati, in particolare dell’Est Europa, che ottengono gran parte dell’energia elettrica dal carbone. È noto però che l’emergenza climatica non ha frontiere e che gli sforzi per contenere l’aumento del riscaldamento globale non possono reggersi solo sulle spalle di Paesi “virtuosi”, che a causa della crisi rischiano di perdere anche quel poco di forza trainante.
Non sarà facile rimpinguare il Fondo per una transizione giusta, il salvadanaio della “rivoluzione verde”, né attraverso lo spostamento di soldi da altri fondi già esistenti, né tramite la mobilitazione di investimenti privati e prestiti della BEI (Banca europea per gli investimenti), purtroppo impegnati su altri fronti.
Bisogna quindi abbandonare temporaneamente l’idea di un progetto così importante?
La crisi ci mette di fronte a due alternative, rischiose entrambe. Correre ai ripari per provare a ripristinare gli assetti economici precedenti al Covid-19 o imboccare una strada alternativa: “puntare a una crescita di qualità, con un’economia circolare, sostenibile e altamente competitiva”, come hanno scritto sulla Stampa Bertrand Piccard, fondatore di Solar Impulse Foundation, e Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione europea.
Magari intraprendendo una ripresa a giri ridotti, attuando con meno rigore quei passi che potrebbero essere più pesanti o essere percepiti come tali dai cittadini, ma senza negare la giusta priorità a una sfida di dimensione globale.
Sono tante le istanze che dovranno essere recepite dalle classi politiche degli Stati membri (e non solo): tra queste correggere il rapporto tra pubblico e privato attraverso modelli di maggiore cooperazione, programmazione e condivisione delle risorse, dare maggiore ascolto ai territori e potenziare i principi di collaborazione tra i vari livelli territoriali. Senza cadere, ed il rischio è alto, nella trappola di una competizione negativa tra di loro.
Non bisogna accantonare l’idea di costruire un sistema sensibile all’ambiente e al miglioramento della qualità della vita, in ogni aspetto che questo comporta: salute, trasporti, smart working, di cui oggi, nostro malgrado, abbiamo iniziato a conoscere le potenzialità.
Il Green Deal è un programma imprescindibile che ha bisogno di una classe politica pronta e una informazione giusta su cui costruire il futuro dell’Europa.
Mario Bonito