(Adnkronos) – (dall’inviata Elvira Terranova) – “Questo non è un processo all’antimafia o a una certa antimafia. Abbiamo solo fotografato alcune condotte illecite. E vi assicuro che è stato un processo doloroso, molto doloroso anche per noi, non solo per gli imputati. Un dolore lancinante, un coltello senza manico. Ci siamo feriti anche noi”. Scandisce le parole lentamente, la Procuratrice generale di Caltanissetta, Lia Sava. Una ad una. Con lentezza. Sono da poco passate le dieci, quando inizia la requisitoria del processo d’appello al giudice, ormai radiata dalla magistratura, Silvana Saguto, e al suo ‘cerchio magico’. Lei è assente. Ma c’è il marito Lorenzo Caramma. La rappresentante dell’accusa si ferma e riprende: “Niente suggestioni esterne, nessun sollecito massmediatico. Il nostro passo è scevro da ogni sollecitazione massmediatica esterna al processo e ha come unica meta la ricostruzione analitica e assolutamente equilibrata dei fatti di reato che in questa sede devono essere confermati. Fatti di reato, non giudizi etici e morali che non ci interessano e che sono fuori dal nostro orizzonte”. L’accusa sottolinea ancora che “nessuno di noi ha messo in dubbio l’importanza strategica dell’Ufficio Misure di prevenzione nel contrasto alla mafia. Solo che ad un certo momento il sistema si è ammalato”. “Noi non abbiamo titolo per dare giudizi morali, se avessimo voluto parlare di etica avremmo selezionato capi di imputazione generici. Vi assicuro che abbiamo maneggiato con cura il materiale probatorio”, tiene a precisare Lia Sava.
L’ex potente Presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo è imputata, insieme ad altre 11 persone, di corruzione e abuso d’ufficio. In primo grado era stata condannata a 8 anni e 6 mesi di carcere. Alla sbarra anche l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, oggi presente in aula, condannato a sette anni e sei mesi. Sei anni e 10 mesi per l’ex professore della Kore Carmelo Provenzano. Tre anni per l’ex prefetta di Palermo Francesca Cannizzo. Un “sistema perverso e tentacolare”, lo avevano definito i pubblici ministeri Maurizio Bonaccorso e Claudia Pasciuti nel corso della requisitoria del processo di primo grado. Assolti invece Vittorio Saguto, padre dell’ex magistrato, Aulo Gigante e Lorenzo Chiaramonte, ex giudice della sezione Misure di prevenzione. Assoluzioni diventate definitive. Questi gli altri condannati dal Tribunale di Caltanissetta in primo grado: all’ingegner Lorenzo Caramma, marito di Silvana Saguto, sei anni e due mesi di carcere; a Roberto Nicola Santangelo, amministratore giudiziario, sei anni e due mesi; all’avvocato ed ex amministratore giudiziario Walter Virga, un anno e 10 mesi; a Emanuele Caramma, figlio di Saguto, a Roberto Di Maria, preside della facoltà di Giurisprudenza di Enna, due anni e otto mesi; a Maria Ingrao, moglie di Provenzano, quattro anni e due mesi; a Calogera Manta, cognata di Provenzano, quattro anni e due mesi; al colonnello della Dia Rosolino Nasca, quattro anni. Ribadisce lo “scrupolo rigoroso” nella “stesura dei capi di imputazione”.
“Non abbiamo mai subito alcuna tentazione etica o moralizzatrice, abbiamo solo fatto il nostro dovere di magistrati requirenti”, continua a dire Lia Sava. Che durante la requisitoria ha parlato di “prove”, a partire dalle “intercettazioni ambientali e telefoniche”. “Io ho seguito questo processo anche come Procuratore facente funzione – dice – le intercettazioni, sia quelle ambientali che telefoniche, non solo venivano ascoltate dalla Polizia giudiziaria, ma i colleghi che in primo grado si occupavano del procedimento, le riascoltavano tutte, anche queste per l’estreno scrupolo che avevamo nel maneggiare questo materiale. Si tratta di intercettazioni ascoltate e riascoltate che hanno dato rappresentazione delle cointeressenze e dei legami degli imputati”.
Lia Sava ci tiene a sottolineare, e lo fa più volte, che “la genesi” del processo all’ex giudice Silvana Saguto “non è nata dal servizio delle Iene o da un sollecito massmediatico, perché noi già indagavamo su questa vicenda dolorosa, molto dolorosa”. “Noi avevamo già tutte le intercettazioni, sia ambientali che telefoniche – dice Sava – Semmai la trasmissione e l’eco mediatico stimolava quelli che avevamo sotto intercettazione a fare dei commenti che ci sono stati, più o meno utili”. E ribadisce: “La genesi del processo prescinde da qualunque sollecito massmediatico. Noi abbiamo fotografato delle condotte illecite realizzate in un arco temporale”. E spiega: “Ribadisco che non è un processo sull’etica ma su fatti giuridicamente rilevanti”. Parla, poi, di “un tessuto connettivo che si ammala e che prima era sano”. “Con buona pace della rappresentazione massmediatica che riconduce la genesi ad altre spinte, noi facciamo processi, molto dolorosi e questo è stato un processo particolarmente doloroso”.
“L’antimafia non c’entra davvero nulla in questo processo – dice ancora Lia Sava- noi abbiamo cercato di fotografare condotte di reato poste in essere in un determinato arco temporale da soggetti che rivestivano incarichi di pubblici ufficiali, condotte illecite e penalmente rilevanti”.
Ma come nasce, dunque, l’inchiesta che ha portato al processo a Silvana Saguto e al suo ‘cerchio magico’? Per caso. Da una intercettazioni in un autosalone a Gela (Caltanissetta), tra un dipendente del salone e un finanziere. A raccontarlo, proseguendo la requisitoria, è la Procuratrice di Caltanissetta, Lia Sava, nel processo d’appello a carico del ‘cerchio magico’ dell’ex giudice radiata dalla magistratura e condannata in primo grado a otto anni e mezzo. “Anche un fatto processuale è la sua genesi, e mi sembra importante in questa sede ricordare qual è stata la genesi di questo processo – dice Sava – Peraltro le carte che dimostrano qual è stata la genesi di questo processo sono state depositate in primo grado e sono agli atti di questo rocesso”. E sottolinea ancora: “Le indagini di questo processo non sono scaturite da nessun input giornalistico, le indagini che hanno dato origine a questo processo hanno una genesi di tutt’altra e più consistente matrice rispetto al sollecito massmediatico”.
Ed ecco cosa accadde nel 2014: “La Dda di Caltanissetta aveva avviato una indagine sul territorio di Gela – dice – che riguardavano una nota concessionaria di autovetture e nel corso di una conversazione tra un militare della Gdf e una della concessionaria. La Dda comprese che questo dipendente si lamentava del fatto che per l’acquisto di 10 vetture dalla concessionaria Bmw era stata pagato una somma di mille euro, cento euro a macchina, probabile frutto di una attività estorsiva. Ecco perché la Procura di Caltanissetta trasmetteva per competenza copia dell’annotazione alla Procura di Palermo. Questo è il primo atto di interesse. Cosa fa la Procura di Palermo? Avvia una indagine e individua la concessionaria nella Nuova Sport Car, che era sotto amministrazione giudiziaria in danno degli eredi Rappa”. “Sei mesi dopo la Procura di Palermo trasmetteva una annotazione di indagine alla Procura di Caltanissetta perché dalle intercettazioni che erano state inviate e dall’ufficio panormita erano emersi profili di responsabilità in capo alla dottoressa Saguto in relazione alla gestione delle misure di prevenzione. E la procura di Caltanissetta iscrive Saguto nel registro degli indagati”.
Poi, Lia Sava, ricorda anche “tutte le polemiche che all’epoca dei fatti ci furono, sui giornali, sul fatto che Silvana Saguto non fosse stata arrestata”. “Molti dissero che se fosse stata una persona comune sarebbe finita in carcere. E’ falso. Nulla di più falso. Perché non era necessario arrestarla, non c’erano le esigenze cautelari. Era già stata sospesa dalle sue funzioni, saremmo andati contro il Codice. Noi siamo stati guidati dalla stella polare del Codice penale, nessun giudizio etico, nessuna bacchetta moralizzatrice ma solo l’applicazione delle regole. Come artigiani del diritto. Leggendo, più volte, carta per carta. Ripeto un coltello senza manico, perché anche noi ci siamo fatti male”.
“Al di là di qualsiasi suggestione massmediatica questo processo ha una origine complessa, favorita dal coordinamento tra la Procura di Palermo e la Procura di Caltanissetta”, continua a dire. E cita ancora le dichiarazioni rese al processo di primo grado dalla giudice Claudia Rosini, ex collega alle Misure di prevenzione di Silvana Saguto. “La prova provata che questo processo non esce da nessun sollecito massmediatico è la testimonianza di Claudia Rosini, che non appartiene, in astratto, a nessuna fazione dell’antimafia. E’ un magistrato che apparteneva allo stesso ufficio della dottoressa Saguto. La malattia della quale si era ammalata in un determinato momento il sistema viene fuori dalle parole della giudice Rosini, non da un giornalisti. Che descriveva dall’interno il contesto, già emerso dalle intercettazioni telefoniche”. E spiega: “E’ stata una testimonianza molto importante perché descriveva ciò che stava avvenendo”. Poi ricorda: “A giugno del 2015 quando era ancora tutto coperto dal segreto investigativo, Rosini aveva presentato una domanda di trasferimento ad altra sezione perché avvertiva un senso di isolamento e di disagio all’interno della sezione Misure di prevenzione”. E cita alcuni passaggi di quella testimonianza: “All’interno della sezione non vi era un sistema automatico per l’assegnzione delle procedure ai magistrati per la composizione dei collegi. Nel tempo mi ero accorta che non venivo coinvolta nelle procedure di prevenzione più complesse, che venivano gestite dal collegio in maniera differente”.
Aveva anche espresso “dei dubbi sulla nomina di Walter Virga” e “aveva espresso una serie di dubbi anche nel momento in cui aveva preso che l’avvocato Cappellano Seminara era proprietario dell’Hotel Brunaccini che stava seguendo una procedura che interagiva con quella vicenda”. “Ecco, queste parole non vengono da un giornalista – dice ancora Lia Sava- o da un servizio televisivo ma vengono dall’interno della sezione. Questa è la fotografia dell’incipit ricostruttivo della sentenza di primo grado che prende le mosse da un angolo visuale privilegiato, un magistrato della sezione non coinvolto nella vicenda e che consente di delineare il quadro. Niente suggestioni esterne, dunque, ma una voce interna della magistratura che può costituire anche per noi l’avvio della requisitoria”.
Dopo Lia Sava ha preso la parola il sostituto procuratore generale Antonino Patti che ha ripercorso i capi di imputazione degli imputati. E ha anche ribadito che “l’incensuratezza degli imputati non li rende meritevoli per la concessione delle attenuanti generiche”. La Procura generale proseguirà alla prossima udienza, che si terrà il 10 febbraio.