(Adnkronos) –
Più di 2 anni, 2 anni e 24 giorni per la precisione, senza che il cancro progredisca. Con un rischio più che dimezzato di avere una ricaduta o di morire. Buone notizie per le donne con un carcinoma ovarico, l’ottavo tumore più comune nella popolazione femminile mondiale, che in Italia fa registrare 5.200 nuove diagnosi all’anno, specie dopo i 40 anni. ‘Prime’, uno studio indipendente di fase 3 condotto in Cina, ha analizzato le evidenze su niraparib, Parp-inibitore targato Gsk, approvato in Italia per “il trattamento di mantenimento in prima linea e in monoterapia per pazienti con carcinoma ovarico epiteliale di alto grado avanzato, alle tube di Falloppio o peritoneale primario, in risposta completa o parziale dopo chemioterapia a base di sali di platino”, ricorda l’azienda. Si tratta, sottolinea, del “primo farmaco di questa classe indicato come trattamento di mantenimento in prima linea per tutte le pazienti, indipendentemente dalla presenza di specifiche mutazioni”.
Nelle donne che hanno ricevuto il farmaco – emerge dallo studio – la sopravvivenza libera da progressione (Progression Free Survival-Pfs) è stata pari a 24,8 mesi, praticamente triplicata rispetto alla Pfs delle donne che hanno ricevuto placebo (8,3 mesi). Significa una riduzione del 55% di possibilità che il tumore si ripresenti o di morire, evidenzia Gsk in una nota. Un risultato importante – si legge – a cui si aggiunge la conferma di un miglioramento del profilo di sicurezza, in linea con quanto era stato rilevato anche nello studio ‘Prima’ nelle pazienti che avevano ricevuto la dose individualizzata di niraparib: solo il 6,7% delle donne trattate con niraparib (il 5,4% nel braccio placebo) ha sospeso in modo definitivo la cura a causa di eventi avversi, e questo rappresenta il dato più basso di tutti gli studi di fase 3 con tutti i Parp-inibitori negli studi condotti in pazienti con carcinoma ovarico.
Prime – dettaglia Gsk – è uno studio randomizzato di fase 3, in doppio cieco, controllato con placebo. Rispetto a Prima, il trial registrativo di niraparib, Prime ha incluso pazienti di stadio III che non avevano malattia residua dopo l’intervento chirurgico cituriduttivo primario. Nel nuovo studio gli autori hanno somministrato una dose individualizzata di farmaco, in base al peso corporeo e alla conta piastrinica, proprio per migliorare il profilo di sicurezza. Le donne arruolate erano maggiorenni, con un tumore ovarico di stadio III/IV, sottoposte in precedenza a chirurgia citoriduttiva primaria o di intervallo, indipendentemente dallo stato di malattia residua postoperatoria.
“Un dato importante – commenta Giorgio Valabrega, Dipartimento Oncologia università di Torino e Scdu Oncologia Ao ospedale Mauriziano Umberto I del capoluogo piemontese – è che in tutti i sottogruppi di pazienti (con mutazioni nei geni Brca, con deficit di ricombinazione omologa o senza alterazioni di questi geni) è stato osservato un beneficio statisticamente significativo in termini di intervallo libero da progressione. Lo studio ha poi confermato prospetticamente l’ottimo profilo di sicurezza di niraparib, quando somministrato in base al peso della paziente e al numero di piastrine prima dell’inizio della terapia”.
Secondo Valabrega c’è comunque un punto che meriterebbe un approfondimento maggiore, a conferma della robustezza del dato nella popolazione Hr proficient, ossia senza difetto di ricombinazione omologa: “Ad oggi non sono disponibili specifiche tecniche sul test utilizzato per definire lo stato della ricombinazione omologa, che potrebbe differire dalle metodiche utilizzate negli altri studi con niraparib. Anche se è molto probabile – aggiunge – che i due metodi identifichino le pazienti nello stesso modo”.
“In ogni caso – conclude il clinico – Prime ci conferma definitivamente che il dosaggio di niraparib deve essere individualizzato per ogni singola paziente, anche in prima linea, come in parte già suggerito dallo studio Prima. In questo modo è possibile ridurre moltissimo gli effetti collaterali senza pregiudicare minimamente l’efficacia del farmaco”.