Ha retto – e per parecchio: corroborata da eloquenti dati di fatto – la tesi dei torti arbitrali per giustificare diversi risultati se non del tutto condizionati quantomeno compromessi in questo primo anno mourinhano della Roma dei Friedkin; tali da influire non già solo sulla classifica ma (forse soprattutto) sullo stato psicologico del gruppo: che, alla prova dei fatti, si è dimostrato friabile come un frollino immerso nel bollente tepore di un thè. Indigesto per tutti i romanisti.
Poiché si è tramutato nel più manifesto e cocente conato di rigetto di qualunque altra principale spiegazione circa quella che è nella sostanza una debacle di classifica: almeno se vista con l’ottimistica presunzione che l’arrivo di Mou avrebbe trasformato l’ottone in oro. Ma tutto sommato, resta comunque una frustrante accettazione della realtà dei fatti: la consistenza della pochezza di una rosa, quantomeno se posta in competizione per determinati traguardi. Perché sì: per metà girone, la Roma ha subito dei torti e delle sviste arbitrali pesanti, influenti nei risultati, nei punti in graduatoria, negli umori. Ma al resto, al tanto del pessimo che si riscontra, ha pensato bene (male) di far tutto da sé.
Perché se ti assegnano un rigore parecchio controverso (anche) contro la Juventus e vieni da una serie di decisioni che ti hanno tagliato le gambe e le convinzioni ma, comunque sia, per chissà quale alchimia (anzi sì, si sa quale: quella che riesce comunque a trasmettere quel tizio coi capelli bianchi in panchina) riesci lo stesso a rialzarsi e andare addirittura sul 3-1, poi non puoi, però, distruggere tutto e con le tue mani perchè ti spaventi, perché hai paura della rimonta, perchè la testa crolla, e ti sei convinto di non farcela. Al di là del come, e del chi: qui, ciò che manca è la testa. La personalità: la voglia di vincere. La bava alla bocca positiva: non quella che ti fa scatenare risse da frustrati convinti d’esser vessati, ma quella che, ad esempio, spinge una delle peggiori Juventus degli ultimi anni a non mollare sotto sul 3-1 e, clamorosamente, fare 3-4 e vincere all’Olimpico. Con tanto di rigore parato/sbagliato nel finale, e decisioni a favore della Roma, stavolta. Questa è mentalità. O meglio: scontro di mentalità. Croniche, storiche.
Da una parte la Juventus che proprio non accetta l’anonimato. Dall’altra la Roma: che non è anonima, ma fa molto più spesso parlare di sé (diciamo in una percentuale da uno a dieci 8 su 10) per le sue figure barbine, per i suoi vorrei ma non posso, per i suicidi sportivi. Per quello che Josè Mourinho ha chiamato collapso.
Già. Un collaso. Emotivo, psicologico. Melodrammatico.
Ha dovuto dirlo lui, Josè Mourinho. Ripeto: lui. José Mourinho. Nemmeno José è esente da critiche, s’intende. Ma, forse, il concetto di fondo non è chiaro: Josè Mourinho. E’ lui che allena la Roma. E lui che, ora, adesso, già da un pò, è finito sul banco degli accusati. Prima si diceva: eh, sì, e quando ci va Mourinho alla Roma. Sogni? Poi il sogno diventa realtà. Magari avrà fatto molti errori, e altri ne farà. Ma da una parte della bilancia c’è la Roma (questa Roma) e dall’altra Mourinho.
Ma sì: buttiamo giù dalla torre anche lui. Josè Mourinho. E’ sempre colpa degli allenatori. Di Fonseca perché è gentile e litiga con Dzeko, di Garcia perché suona il violino ma stringi-stringi che ha vinto? Di Ranieri che era bollito, vecchio (come Mou) e però ha scritto la pagina di successo calcistico più emozionante della storia e, nel 2010, quasi-quasi stava rovinando il triplete interista proprio allo Special One. Ed è colpa di Spalletti, ovviamente. Non sarà, chissà, un onere delle proprietà e dei direttori sportivi che, tra comprare e vendere, fanno e disfano? D’accordo: quando si cade, si cade tutti insieme, e ognuno ha il suo peso di responsabilità.
Il ‘responsabile tecnico‘ deve dare qualcosa di più alla squadra, d’accordo. E magari uno quando legge “allenatore della Roma” e subito dopo “José Mourinho” pretende qualcosa di molto di più. Ma da queste parti nessuno moltiplica i pani coi pesci. Vogliamo gettare dalla torre Mourinho e ripartire dall’ennesimo tecnico, magari un giovane che parla del ‘mio calcio’, e un nuovo progetto, e una nuova ripartenza ancora e ancora e ancora?
La sintesi perfetta, l’ha fatta proprio lui, José, in merito al perché le cose non riescano mai a cambiare dalle parti di Trigoria.
“Un collasso psicologico. Mi fa male l’anima perché non sono abituato a questo profilo di squadre ma sono qui per dar modo ai ragazzi di migliorare. Voglio però che la squadra mi segua per andare oltre i loro limiti, non che siano loro a portare me al loro livello”.
Ecco cosa fa la Roma: peggiora chiunque. Un calciatore di buone speranze. Un tecnico in ascesa: e anche il tecnico più titolato del mondo. Peggiora i tifosi, quantomeno negli umori. La Roma non si alza mai perché non si concede mai davvero quel tempo di cui parla, per far ciò che occorre.
Ovvero? Cosa occorre? Cambiare la struttura (e dunque la testa) di chi scende in campo, oltre che quella di chi sta fuori. Perché puoi giocare 3-5-2 o 4-2-3-1 e in tanti altri modi: pressare alto, basso, attendere o aggredire. Puoi essere zemaniano o capelliano, puoi affidarti all’estro dei talenti o alla chimica degli schemi. Ma se non hai gli uomini giusti per farlo, e neanche il tempo per farlo, e se la società non ti supporta davvero, puoi anche chiamarti José Mourinho. Ma finirai sempre con zeru tituli.
Solo che lui, questo, proprio non lo tollera. Ed è questa l’ultima speranza a cui i tifosi dovrebbero aggrapparsi.