(Adnkronos) – Dopo settanta udienza e la testimonianza di oltre 110 persone è iniziata davanti al Tribunale di Caltanissetta la requisitoria del processo per il cosiddetto depistaggio sulle indagini sulla strage di via D’Amelio. Alla sbarra ci sono tre poliziotti: Mario Bo, oggi assente, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, entrambi presenti. Sono tutti accusati di calunnia aggravata in concorso perché secondo la Procura nissena avrebbero tentato di indurre l’ex pentito Vincenzo Scarantino a dire il falso. A prendere la parola all’aula bunker del carcere Malaspina di Caltanissetta il pm Stefano Luciani, che da qualche tempo è pm alla Procura di Roma. “Questo processo, anche in virtù dell’aggravante, ha anche l’obiettivo di comprendere quali siano le ragioni alla base delle condotte che questo processo ha cercato di sviscerare”, dice il magistrato.
“Mi scuso in anticipo con le parti civili di questo processo perché la requisitoria che mi accingo a fare certamente non sarà adeguata a quella che sarebbe dovuta essere la conclusione di un processo di questa portata – dice ancora Luciani – Non sto qui certamente a sottolineare, benché certamente parliamo di imputazioni precise nei confronti di soggetti ben determinati, le implicazioni ulteriori che ha questo processo. Certamente meritava una discussione diversa da parte del pubblico ministero”.
Luciani ha quindi ricordato quando nel 2008 il pentito Gaspare Spatuzza, che ha fatto scoprire le falsità di Scarantino, “inizia a raccontare una verità che da subito è apparsa dirompente. Ed era una verità che andava a sconvolgere ben due processi che si erano già celebrati per la strage di via D’Amelio e che andava a mettere in discussione condanne all’ergastolo. E’ facile dunque comprendere che tipo di impegno attendeva la procura di Caltanissetta e le altre procure interessate”. Ha anche ricordato che “questo processo ci pone in linea di continuità con il processo Borsellino Quater che ci ha rassegnato una verità e cioè che quelle condanne erano state comminate sulla base di prove manipolate che consistevano essenzialmente, ma non solo, in prove dichiarative. Era stata manipolata la collaborazione di Salvatore Candura, quella di Francesca Andriotta e infine quella di Vincenzo Scarantino”.
“Il più grande depistaggio della storia italiana nasce a Pianosa – ricostruisce quindi Luciani – . Come si arriva all’interrogatorio del 24 giugno 1994? Quindici giorni dopo l’arresto di Vincenzo Scarantino, avvenuto il 29 settembre 1992, atterra sul tavolo del procuratore di Caltanissetta Tinebra una nota del Sisde con a capo Contrada, veicolata attraverso la Squadra Mobile di Caltanissetta nella quale incredibilmente, il Sisde anziché dire che Scarantino è un piccolo delinquente di borgata, lo definisce un boss mafioso. Da quel momento Vincenzo Scarantino subisce un pressing asfissiante. A Venezia, a Busto Arsizio, viene sottoposto a interrogatori costanti e ripetuti. Viene sottoposto a plurimi procedimenti penali a condanne per traffico di droga, rinviato a giudizio per la strage. Il 24 giugno 1994, quando disse di volere parlare della strage Scarantino era un uomo, disperato, sfiancato”.
“La moglie di Scarantino – prosegue Luciani nella lunga requisitoria – fece mettere a verbale che il marito le diceva: ‘Non mi lasciano in pace sono sempre qua’. Scarantino, come diceva la moglie, veniva malmenato, gli mettevano i vermi nella minestra, gli hanno instillato il dubbio di essere affetto da Hiv. Lo facevano spogliare nudo, gli dicevano che lo volevano impiccare”.
“Mio marito mi diceva – ricostruisce il pm leggendo in aula le dichiarazioni rese da Rosalia Basile, oggi ex moglie di Scarantino – che gli avevano iniettato il siero dell’Aids, sapendo che era geloso, gli instillavano il dubbio che io avessi l’amante’. Sono esattamente le stesse cose che ha ripetuto 21 anni dopo davanti a questo tribunale. E ancora la moglie riferiva: ‘Io so che questo Arnaldo La Barbera non lo lasciava in pace, capendo che era un soggetto fragile. Lui mi ha sempre detto che non c’entrava nulla con la strage ma che gli avevano promesso la libertà e denaro’. Scarantino aveva raccontato alla moglie – riferisce Luciani -che aveva incontrato a Pianosa Arnaldo La Barbera. Scarantino veniva minacciato di morte, gli veniva detto che gli facevano fare la fine di un ragazzo che era morto in carcere. Erano loro i poliziotti di La Barbera”.
Quindi Luciani punta il dito su alcuni testi. “In questo processo – afferma il pm – ci sono stati testimoni chiamati dalla procura, appartenenti al gruppo d’indagine sulle stragi Falcone e Borsellino, che non hanno fatto onore alla divisa che indossavano: si sono trasformati in testi della difesa in maniera grossolana. Spero che questi comportamenti siano segnalati a chi di dovere”, dice il pm rivolgendosi all’avvocatura dello Stato.