(Adnkronos) – Il caso Battisti, le ricostruzioni sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro e la querelle con la Commissione Moro 2. Esce il 2 maggio il nuovo libro di Paolo Persichetti, ex Br e oggi ricercatore storico e autore di libri e inchieste sul caso Moro, che recentemente è stato indagato dalla procura di Roma con l’accusa di aver divulgato materiale riservato della Commissione parlamentare d’inchiesta. Un’accusa ritenuta insussistente dall’ex terrorista, che ha anzi parlato di attacco alla libertà di ricerca, stigmatizzando il sequestro del suo monumentale archivio su Moro.
Proprio alla questione dei suoi rapporti con la Commissione Moro 2 al centro dell’indagine romana Persichetti ha dedicato ampio spazio, tra l’altro ricostruendo “almeno sette episodi (ma il numero è probabilmente superiore) nei quali esponenti della Commissione hanno diffuso notizie o documenti riservati o segretati”. “Queste violazioni, quattro delle quali avvenute prima del dicembre 2015, hanno riguardato la diffusione di verbali segretati di almeno quattro testimoni, tre escussi dai consulenti della Commissione e dallo stesso Presidente, uno audito in seduta segreta dalla Commissione stessa, e diverse notizie riservate raccolte dai consulenti”, sottolinea il ricercatore, che nel libro li racconta nel dettaglio, spiegando che in tutti i casi “si trattava di materiale documentale di prima mano funzionale allo sviluppo di successivi approfondimenti investigativi la cui divulgazione avrebbe potuto nuocere allo sviluppo di ulteriori accertamenti”.
BATTISTI CATTURATO GRAZIE A UNA MAIL ANONIMA – Fu una mail anonima a portare alla cattura dell’ex Pac Cesare Battisti, dopo la sua fuga da Brasile, ricostruisce Persichetti nel libro che l’Adnkronos ha letto in anteprima. Persichetti spiega di essere venuto a conoscenza di questi dettagli dopo aver scoperto di essere stato indagato (e poi archiviato) dalla procura di Milano in relazione alla cattura dell’ex terrorista dei Pac ed essere riuscito ad acquisire gli atti del procedimento. Tra l’altro, scrive, “l’informazione decisiva” per rintracciare l’ex terrorista latitante perveniva “da un account di posta elettronica dal nome estremamente evocativo, ‘judas3636@gmail.com’: martedì 4 dicembre 2018, alle ore 16.32, giungeva all’ufficio visti delle sede diplomatica italiana di La Paz il seguente messaggio: ‘Buon giorno, potremmo fornire informazioni preziose su una persona che state cercando da molto tempo, ciò che vorremmo sapere è cosa potrebbe guadagnare la persona che prende il rischio di fornire informazioni sulla sua posizione esatta. Stiamo parlando di Cesare Battisti. Buona giornata’. Il giorno successivo l’autore del messaggio veniva identificato: viveva a Santa Cruz de la Sierra, dove immediatamente si concentrarono le indagini. Il rapporto citava il nome di un altro cittadino boliviano che pare avesse preso in consegna Battisti al suo ingresso nel paese. Le verifiche accertarono che ‘Judas’ e questo secondo uomo erano in contatto e che insieme avevano raccolto Battisti dalla frontiera brasiliana per condurlo in un hotel di Santa Cruz, dove aveva soggiornato dal 16 novembre al 21 dicembre”.
L’AVVOCATO DELL’EX PAC INTERCETTATO – Sono bastati “pochi contatti telefonici con alcuni familiari di Battisti per indurre la Digos ambrosiana a ritenere che io fossi a capo di una ‘rete’ che forniva sostegno ai latitanti sparpagliati in mezzo mondo, una sorta di nuovo Soccorso rosso internazionale, e l’avvocato Steccanella gestisse dall’Italia la latitanza di Battisti fornendogli contatti in loco”, scrive ancora Persichetti. In particolare, ricostruisce, “mentre si stringeva il cerchio” attorno a Battisti, la Digos milanese, che aveva clonato il telefono di un suo familiare italiano (l’indagine stava alla procura generale), incappò in “contatti tra me e il familiare risalenti all’ottobre del 2017, quando Battisti era stato fermato vicino alla frontiera boliviana e arrestato con l’accusa di esportazione della valuta che aveva con sé. Avevo sentito questa persona per consigliarle di prendere un avvocato ed essere pronta al peggio, nel caso Battisti fosse stato ricondotto in Italia, come sembrava in quel momento. Quando mi chiese aiuto per trovare un legale la misi in contatto con l’avvocato Davide Steccanella, mio amico, che si era reso disponibile a prenderne la difesa nella malaugurata ipotesi di una sua estradizione”. “Il 10 gennaio 2019 la Procura generale dispose la clonazione del telefono dell’avvocato Steccanella con l’obiettivo di poter ‘reperire ulteriori e più circostanziati elementi utili alla esatta localizzazione del latitante'”, svela Persichetti, che aggiunge: “Di questa clonazione l’avvocato Steccanella è venuto a sapere soltanto nel 2021 quando, dopo aver esaminato il fascicolo, l’ho informato personalmente. La clonazione del cellulare dell’avvocato Steccanella è uno – non il solo – degli episodi più sconcertanti e paradossali di questa inchiesta, poiché era avvenuta quando le stesse indagini avevano accertato che Battisti si era avvalso di contatti locali, dimostratisi del tutto inaffidabili, persino estranei a circoli politici”. Poi, “quando, il 14 gennaio, Battisti nominò come suo legale di fiducia l’avvocato Steccanella, che da quattro giorni aveva il telefono clonato, nella Procura di Milano deve esserci stato grande imbarazzo e forse anche qualcosa di più”.
CASO MORO, FOTO E VERBALE SMENTISCONO COLPI DA MOTO IN VIA FANI – Nel suo nuovo libro Persichetti affronta anche il ‘giallo’ della moto in via Fani. “Una moto Honda di grossa cilindrata con due persone a bordo passò davvero in via Fani la mattina del 16 marzo 1978? Se fosse vero, chi cavalcava quel mezzo? Due brigatisti mai identificati o due ignari motociclisti piombati nel luogo sbagliato al momento sbagliato? Oppure, come sostengono i dietrologi, i centauri erano uomini dei Servizi in appoggio al commando brigatista? La questione – scrive il ricercatore – tiene banco da anni ed è tornata d’attualità dopo una campagna sensazionalistica ripresa dai media. Un clamore che ha provocato il rilancio dell’inchiesta e un’altalena di decisioni contraddittorie”.
“Dal punto di vista storico e politico, se si accertasse che la moto passò e che era guidata da due brigatisti rimasti ignoti, non cambierebbe nulla. La questione rivestirebbe solo un residuale interesse giudiziario. Tuttavia i brigatisti hanno sempre negato l’impiego di una motocicletta quella mattina”, scrive Persichetti che poi si sofferma sulle testimonianze che confermano la presenza della moto, e in particolare su quella dell’ingegner Marini, per il quale l’Honda “di colore blu (ma in successive testimonianze cambierà colore), partecipa all’assalto già avviato e addirittura sfreccia dietro la 132 blu che porta via Moro”. “Sedici anni dopo, il 17 maggio 1994, ascoltato nuovamente dalla Procura che stava conducendo nuove indagini, l’ingegner Marini fa una rivelazione che ribalta completamente la storia dei colpi di pistola esplosi contro di lui dalla moto Honda: ‘Riconosco nei due pezzi di parabrezza che mi vengono mostrati, di cui al reperto nr. 95191, il parabrezza che era montato sul mio motorino il giorno 16 marzo 1978. Ricordo in modo particolare lo schoch che io stesso ho apposto al parabrezza che nei giorni precedenti era caduto dal cavalletto incrinandosi. Prima di sostituirlo ho messo momentaneamente questo scotch per tenerlo unito. Ricordo che quel giorno, in via Fani, il parabrezza si è infranto cadendo a terra proprio dividendosi in questi due pezzi che ho successivamente consegnato alla polizia”.
Dunque, osserva Persichetti, “non sono più i colpi di pistola ad aver distrutto il parabrezza”. D’altra parte, “tra le tante foto che ritraggono via Fani subito dopo l’assalto brigatista, si può scorgere, proprio accanto all’Alfasud beige che trasportò il capo della Digos Domenico Spinella in via Fani, parcheggiata sul lato sinistro della via, un motorino accostato al muretto che separa il bar Olivetti dalla strada con un parabrezza nastrato. Si tratta del Boxer Piaggio dell’ingegnere Alessandro Marini, ‘lasciato incustodito all’incrocio con via Fani e via Stresa’. La caduta del motorino dal cavalletto sarebbe dunque avvenuta diverse ore dopo l’assalto brigatista, perché il parabrezza – come raffigurano le immagini – è ancora sul motorino completo seppur fissurato e tenuto dal nastro. Questa foto, da me facilmente rinvenuta in rete nella estate del 2014, metteva definitivamente a tacere la versione dei colpi sparati dalla Honda contro Marini e che avrebbero distrutto il parabrezza, facendo anche crollare la versione della moto con i brigatisti a bordo che avrebbe partecipato al rapimento e di cui il parabrezza infranto sarebbe stata la prova inconfutabile”.
NOTARNICOLA NON SI DISSOCIÒ QUANDO BR PROPOSERO SCAMBIO MORO-PRIGIONIERI – Sante Notarnicola, il ‘bandito poeta’ della banda Cavallero, non si dissociò mai dalla richiesta delle Brigate rosse, che, con il comunicato n. 8, chiesero la scarcerazione di 13 prigionieri politici, tra i quali lo stesso Notarnicola, in cambio della liberazione di Aldo Moro, rivela poi Persichetti nella lunga sezione del libro dedicata al caso Moro. raccontando di aver ricevuto, “quattro anni fa, qualche tempo dopo l’uscita del primo volume sulla storia delle Brigate rosse scritto insieme a Marco Clementi ed Elisa Santalena”, una telefonata del bandito, poi morto a marzo 2021.
“Sante – scrive Persichetti – aveva chiamato per raccontarmi un fatto che lo aveva amareggiato molto. Il professor Agostino Giovagnoli, in un passo del volume dedicato al rapimento Moro, Il caso Moro, una tragedia repubblicana (Il Mulino, Bologna 2005), aveva realizzato un falso storico nei suoi confronti. Nel raccontare le reazioni suscitate dal comunicato numero 8 delle Brigate rosse, nel quale in cambio della liberazione di Aldo Moro si chiedeva la scarcerazione di tredici prigionieri politici tra i quali figurava in testa alla lista il nome di Notarnicola, aveva scritto: ‘Sante Notarnicola si dissociò subito dalla richiesta brigatista’. Non era affatto vero” e “oggi, che ci ha lasciato, voglio saldare la promessa che gli feci”.
A quanto scrive Persichetti, Notarnicola, “dopo la diffusione del comunicato brigatista, il 30 aprile 1978, fu chiamato dal Direttore del carcere, che – circostanza davvero incredibile – lo lasciò solo nel suo ufficio davanti a un telefono: ‘prendi tutto il tempo che vuoi e telefona a chi vuoi, se necessario’, gli disse chiudendosi la porta alle spalle. Erano arrivati ordini ben precisi dai piani alti del ministero dove qualcuno sperava in questo modo di ottenere una presa di distanza, molto potente sul piano simbolico da parte di Notarnicola, dalle richieste avanzate dai brigatisti per liberare Moro. All’altro capo del filo Sante riconobbe la voce di Valentino Parlato del ‘Manifesto’ che tentò in tutti i modi di convincerlo a distinguersi dalla richiesta di scambio, confidando sul lungo rapporto di stima e collaborazione costruito negli anni delle lotte carcerarie. La pressione fu notevole e per Sante suonò come un ricatto dei sentimenti che a distanza di anni gli pesava ancora, ma disse no”.