Fusioni e mancate fusioni, prove di aggregazione e scelte controcorrente sulle filiali. Si può riassumere così un 2021 decisamente mosso per il settore bancario, a partire dalla grande operazione Intesa Sanpaolo-Ubi, passando per il no di UniCredit al Mef per Monte dei Paschi di Siena e per l’offerta su Carige da parte di Bper, con quest’ultima protagonista anche nell’operazione dell’istituto guidato da Carlo Messina attraverso l’acquisizione degli sportelli di Ubi rimasti fuori. Senza dimenticare la fusione tra Crédit Agricole e Creval, aggregazione che oramai viaggia spedita e che si concluderà alla fine di aprile 2022.
Quelle portate avanti nel 2021 sono state operazione riuscite o non riuscite che hanno messo a nudo la trasformazione del comparto in Italia: intanto, con la diminuzione del numero di grandi banche, di fatto viene ridotta quella “sana” e “necessaria” concorrenza spesso invocata dal presidente dell’Abi Antonio Patuelli. Ma soprattutto, prosegue inesorabile l’impoverimento al centro e al sud del Paese dei presidi bancari, oramai tutti spostati al Nord. Se l’operazione tra UniCredit e Mps fosse ad esempio andata in porto, l’inevitabile spostamento da Siena a Milano della sede centrale dell’istituto avrebbe portato a un ulteriore impoverimento nel centro Italia non tanto della presenza della banca in sé, quanto della governance e dei suoi legami con le famiglie e le imprese del territorio.
Al Centro Italia tra le grandi resta Bper, ora alle prese con Carige, che ha deciso di muoversi un po’ controcorrente rispetto alle altre banche. Perché mentre tutti hanno intrapreso, chi più chi meno, la via dei tagli e delle chiusure delle filiali nella prospettiva di un rapporto banca-cliente sempre più tech e meno fisico, l’istituto emiliano ha preferito nel 2021 rafforzarsi ulteriormente sul territorio con l’acquisizione degli sportelli di Ubi rimasti fuori dall’operazione con Intesa. Il risultato è che ne ha assorbiti 616, arrivando a quota 1.715 e incrementando i punti operativi da appena 9 a 139, collocandosi in ben 19 regioni dalle 13 precedenti. Quanto a Carige, lo scorso 14 dicembre Bper ha presentato al Fitd un’offerta non vincolante per acquisire l’istituto ligure, di cui il Fondo interbancario di tutela dei depositi e lo Schema Volontario hanno il 79,99% della quota. Al momento la risposta, ma sono indiscrezioni, è quella di non voler concedere alla banca emiliana l’esclusiva sulla trattativa, lasciando spazio ad eventuali altre banche interessate, tra cui Crédit Agricole, nonostante il suo ceo Maioli abbia di fatto smentito un qualche interesse per il dossier.
L’eventuale fusione Bper-Carige, inoltre, avrebbe anche un ulteriore impatto sul comparto: darebbe vita a quel famoso terzo polo bancario di cui si parla tanto e che potrebbe vedere la partecipazione anche della Popolare di Sondrio, divenuta da ieri una Spa con il via libera a larghissima maggioranza dell’assemblea. Un gruppo che si posizionerebbe come diretto ‘avversario’ di Banco Bpm e che, tornando al discorso sulla concorrenza, darebbe una scossa positiva al mercato.
Al Sud resta aperta, e chissà per quanto, la partita del grande progetto di una banca del Mezzogiorno, ma che al momento è al palo con Mediocredito Centrale che da marzo scorso ha dato vita al Gruppo, nel quale convergono le controllate Banca Popolare di Bari e Cassa di Risparmio di Orvieto. Ma a oggi, tutto è fermo e a muoversi sono solo i conti in rosso della banca barese che pesano su quelli di Mcc.
Scettro per l’operazione dell’anno va chiaramente a Intesa Sanpaolo, che ha realizzato la fusione con Ubi il 12 aprile scorso, dopo aver lanciato un’offerta a febbraio dell’anno precedente e aver trovato una risposta positiva solamente in estate, tra la fine di luglio e inizio agosto 2020. Una manovra che ha visto nascere un gruppo da quasi 50 miliardi di capitalizzazione, terzo in Europa alle spalle di Bnp Paribas e Santander e che ha coinvolto 80mila lavoratori.
Più complessa è stata la trattativa, poi fallita, tra UniCredit e il Mef per l’acquisizione di Mps. Iniziata a luglio scorso, a fine ottobre si è arrestata per mancanza di convergenza sulle richieste dell’istituto guidato da Andrea Orcel, che sostanzialmente prevedevano l’acquisizione della parte ‘buona’ dell’istituto senese, lasciando pendere sullo Stato la spada di Damocle di 8mila esuberi e un ricco portafoglio di crediti deteriorati.
Proprio queste condizioni, che sarebbero costate 8,5 miliardi di euro ai contribuenti tra benefici fiscali e un aumento di capitale, hanno reso meno doloroso lo stop delle trattative, ma ora incombe sul Monte dei Paschi la necessità di una proroga da Bruxelles per trovare eventuali nuovi acquirenti che liberino il Tesoro dalla quota detenuta entro il 2022.