Articolo 18, tra sviluppo lavorativo e diritti – di Noemi Campegiani

L’articolo 18, una legge che ormai da tempo viene messa al centro di numerose controversie politiche e sociali a causa della sua enorme caratura democratica. Si parla dell’articolo che, emanato nel 1970, protegge il lavoratore, stabilisce i suoi diritti e soprattutto lo preserva da possibili licenziamenti illegittimi. Proprio questo ultimo punto è l’aspetto più controverso di tale legge, che spesso già in passato ha messo in lotta diversi esponenti politi.

Fin dagli anni ottanta si è aperta la discussione che  voleva una revisione di tale articolo e, nei casi più estremi, l’abolizione totale. Al primo tentativo di modifica attuato dal partito di Democrazia Proletaria ne seguirono nel corso degli anni molti altri. L’art.18 divenne dunque nel tempo simbolo dell’indeformabilità delle leggi  italiane e soprattutto dell’eccessiva protezione nei confronti dei lavoratori. Ogni qual volta si è cercato di attuare le modifiche volute a tale legge a bloccare qualsiasi lavoro di cambiamento sono giunti i sindacati proteggendo strenuamente la figura dei lavoratori e  non permettendo alcun intervento sulla legge. Nel 2000 fu il Partito Radicale a richiedere un referendum proprio per arrivare ad una liberalizzazione dei licenziamenti. Il referendum non raggiunse il quorum e dunque fallì. Seguendo la linea di quanti vedevano nell’abolizione un passo in avanti verso un sistema lavorativo più efficiente, Renzi ha riaperto la questione scaldando gli animi in parlamento.

“L’Italia deve cambiare: sono anni che continuiamo a cambiare il governo ma non le cose. E così come riformando la Costituzione non stiamo attentando alla democrazia, con la riforma del lavoro vogliamo rendere più semplice il lavoro: nessuno vuole togliere diritti ma darli a chi non li ha avuti”. Queste sono le parole del premier che fin dalla sua elezione a presidente del Consiglio ha fatto delle riforme il suo punto di forza. Se l’articolo vuole essere modificato, sottolinea, non è per abolire ed estirpare i diritti dei lavoratori, cosa che viene sostenuta invece dai sindacati, ma per alleggerire un sistema lavorativo che blocca il paese e non permette il suo sviluppo.

A sostegno di questa tesi vengono le dichiarazioni di Squinzi raccolte su SkyTg24 che afferma: “Sono favorevole ad eliminare l’articolo 18, ormai è un mantra, che in tutto il mondo ci addossano come paese. Parlando in tutto il mondo – aggiunge – ci dicono che in Italia non si può investire perché c’è l’articolo 18 e quando assumi un dipendente lo fai per la vita”, secondo  il presidente di Confindustria tale abolizione dovrebbe seguire ad una riforma totale del mondo del lavoro in modo da arrivare a dei contratti convenienti tanto per i lavoratori quanto per le aziende senza che siano necessariamente a tempo determinato.

Forte  è giunta la reazione dei sindacati che non permettono un affronto così grande al lavoratore e ai suoi diritti. Susanna Camusso ,segretaria generale della Cgil, ha prontamente esposto l’opinione del sindacato in merito: “Un presidente del Consiglio deve misurarsi col fatto che esiste una forte rappresentanza organizzata del lavoro che non si può cancellare. Se si rifiuta di farlo conferma che voglia cancellare le condizioni dei lavoratori”. “Penso che bisogna smetterla di fare una discussione ideologica come quella che sta facendo Renzi. Penso che se lo fa va incontro a una profonda rottura del Paese, e un Governo non dovrebbe mai cercarla”. Per la Camusso  questa volontà del premier non è che un tentativo di “farsi dare dalla Ue ciò che finora l’Ue non gli ha dato”.

Le spaccature  sull’argomento sembrano destinate a presentarsi anche all’interno dello stesso Partito Democratico dove Bersani ,in seguito all’input lanciatogli da Renzi che lo definiva appartenente alla “vecchia guardia” della politica afferma: “Nel Jobs act di positivo ci sono le intenzioni che si dichiarano” ma quello che “non va è che è una norma molto vaga che si presta a varie interpretazioni”. Intervistato dal Tg1, l’ex segretario Pd sostiene: “Se l’idea è dire no alla frammentazione e alla precarietà, allora si deve sfrondare e unificare con un percorso crescente di diritti per tutti, compresi i licenziamenti”. In tutta Europa esiste il reintegro, quindi semplifichiamo ma il reintegro resta”.

Quando gli viene chiesto se dunque la sua decisione è quella di votare a sfavore della mozione di Renzi, Bersani chiarisce: “Io non ragiono così. Ci riuniamo per trovare un punto di convergenza e intesa. Per me l’equilibrio tra capitale e lavoro è un più del riformismo – aggiungendo – con la mia storia conservatore no, non posso essere accusato di esserlo. Vecchia guardia posso accettarlo ma più vecchia guardia di Berlusconi e Verdini chi c’è. Vedo che loro sono trattati con educazione e rispetto, spero che prima o poi capiti anche a me”.

Mentre la Boschi cerca di placare gli animi nel Pd ricordando di dover camminare tutti insieme verso un’unica direzione, il dibattito non accenna a terminare ed anzi si infuocherà sempre di più man mano che l’ipotesi di un referendum sull’abolizione dell’art.18 diventerà sempre più concreta. Una “diatriba” infinita che rischia, ancora una volta, di mettere in cattiva luce l’Italia difronte all’Europa intera mostrandola come il paese delle liti e delle incertezze e che difficilmente sfocerà in un miglioramento effettivo della situazione lavorativa nazionale.