(Adnkronos) – (dall’inviata Elvira Terranova) – E’ appena passata la mezzanotte e il giudice del Tribunale di Patti (Messina) ha finito di leggere il dispositivo della sentenza del processo più importante degli ultimi anni, emettendo condanne per oltre 600 anni di carcere contro la mafia dei Nebrodi e confische per milioni di euro. Alla sbarra la cosiddetta ‘Mafia dei pascoli’ e quel sistema attraverso cui la criminalità drenava milioni di euro di contributi europei destinati ai terreni agricoli garantendosi linfa finanziaria. Un meccanismo i cui ingranaggi furono fermati dal protocollo di legalità voluto da Giuseppe Antoci. Che da allora vive scortato. Il suo Protocollo ha permesso alla Dda di Messina di smantellare una serie di truffe milionarie all’Unione europea commesse dai boss nebroidei. Sono novantuno le condanne di ieri sera. E dieci le assoluzioni. Antoci è lì, in un angolo, circondato dai suoi ‘angeli custodi’, la sua scorta. E piange. Un carico emotivo troppo forte. “Sì, è vero. Ho pianto – dice oggi in una intervista all’Adnkronos – Durante la lettura della sentenza, durata quasi un’ora, mi sono passati davanti agli occhi tutti questi ultimi anni. Io mi sentivo a bordo di una barca a vela durante una tempesta. E pensavo a volte che quell’albero della vela si spezzasse. Ma non è accaduto. Hanno tentato di fermarmi in tutti i modi. Invece, quel tronco di albero ha retto E non l’ho sorretto io, ma lo hanno sorretto la verità, la giustizia, il lavoro, la dignità, la squadra”.
“Lo ha sorretto un paese che mi è stato vicino, a partire dal Presidente Sergio Mattarella a cui va i mio pensiero oggi. Ieri sera ho pensato a lui. A quella accoglienza riservata alle mie figlie, come un nonno. Ha dato a tutta la mia famiglia una forza enorme. Se oggi dovessi decidere a chi mi ha dato quella forza di andare avanti, penso a lui. Vorrei trasmettere alle mie figlie il senso del dovere di una persona che ha passato ciò che ha passato. E io gli sarò grato per tutta la vita”.
Da una prima lettura del dispositivo, lungo 17 pagine, emerge una sostanziale conferma dell’impianto accusatorio e delle richieste della Procura antimafia di Messina, che furono formulate nel luglio scorso da quattro pm, il procuratore aggiunto Vito Di Giorgio, i sostituti della Dda Fabrizio Monaco e Antonio Carchietti, il collega della Procura Alessandro Lo Gerfo. Che ieri erano presenti alla lettura del dispositivo.
Poi, tornando ancora alla lunga serata di ieri, al Tribunale di Patti (Messina), dove, rinvio dopo rinvio, la sentenza è arrivata solo alle 23.09 e la lettura del dispositivo è terminata dopo un’ora ancora, Giuseppe Antoci spiega: “Considero la serata di ieri un tassello, una vicenda che andrà avanti. Penso all’applicazione della norma del protocollo che si sta dimostrando devastante per le associazioni mafiose. E’ un percorso che va portato avanti con il supporto agli agricoltori”. E ricorda: “Tutto questo nasce per difendere gli agricoltori. Chi poteva pensare che ci fosse dietro la mafia? Penso al giudice che scrive in una sentenza ‘un territorio di anime morte’, è umiliante. Loro si sentivano soli, allora il senso è questo. Ancora non abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare. Non solo nei Nebrodi, ma in tutto il paese e in Europa. perché le truffe all’Ue sono in molte parti d’Europa. Parliamo di miliardi di euro. Oggi ci sono le forze dell’ordine e la magistratura. Che le mafie vengano finanziate da fondi pubblici è una offesa non a me ma a chi non c’è più”. E spiega: “Non è immaginabile che mentre noi stiamo al bunker a commemorare i morti, in quegli stessi momenti i fondi pubblici finanziano quelle stesse famiglie che hanno ucciso gli eroi”. “Ecco, ieri è stato un momento di normalità”, dice.
E la politica? Nel 2018 Antoci venne nominato Responsabile Legalità del Pd. Ma le strade tra il ‘padre’ del Protocollo Antoci e il partito si sono divise ben presto. “La politica ha fatto la sua parte, ha portato avanti strumenti di legge nei settori di cui ci stiamo occupando – spiega – Questa è la politica fatta di impegno generale. Poi ci sono i politicanti… Ma di quelli non ho il tempo né la voglia di occuparmene”. Ma una cosa ci tiene a dirla, Antoci: “Io non ho mai approfittato di ciò che mi è accaduto. Sarebbe stato umiliante farlo. Questa è una vicenda che non riguarda una parte politica ma il paese intero. Non permetterò mai che questa vicenda sia appannaggio politico di una parte politica. Chi ha fatto la sua parte va bene, ma a chi ha tentato di fare altro non devo pensarci io, ma gli elettori. E i risultati, mi pare che si siano visti… Penso che i cittadini comprendano le cose fatte, indipendentemente dal doverne approfittare piuttosto che fare il proprio dovere. La lotta alla mafia va fatta di passione non con la politica. Ieri abbiamo visto anche un approccio significativo sull’ergastolo ostativo e io ne sono felice”.
Poi, tornando a parlare di quella ‘barca a vela’, che è stata la sua vita negli ultimi anni, spiega: “Mi sento da anni come se fossi su una barca a vela e ti rendi conto che finisci dentro una tempesta. Non vedi niente. E a un certo punto il mare si rasserena, torna il sole e incontri una isola bellissima, E ti rendi conto che quello è un pezzo della tua vita che ti mancava e ti ripaga di quelle tempeste. Mi sento in quell’isola. E insieme a me ci sono tante persone, soprattutto quei valorosi poliziotti della mia scorta che mi hanno permesso di raggiungere quell’isola, quando qualcuno ha cercato di impedirmelo. Il Parlamento ha recepito in toto il Protocollo Antoci, è come se ognuno avesse fatto un pezzetto. Bisogna riflettere sui protagonisti di questa vicenda. Sono consapevole che il protagonista non è Antoci, ma il silenzio. Il silenzio di chi sapeva. Di chi vedeva passare finanziamenti milionari senza fiatare, il silenzio di tanti uomini che ricoprivano funzioni pubbliche. Tutti questi silenzi hanno armato le mani di coloro che mi volevano uccidere. Quando c’è silenzio, quelle voci che gridano vanno spenti. Il silenzio è la cosa più brutta che può accadere. C’erano connivenze. La paura è un sentimento che io rispetto. Magari non la accetto, perché quando riguarda reati non posso accettarla ma la rispetto. Tutte queste cose hanno sovraesposto la mia vita, hanno fatto minacciare mia figlia. Le hanno detto ‘Quel bastardo di tuo padre’ in un locale pubblico, solo perché ho fatto il mio dovere. Questo è un paese che ha bisogno di normalità”.
E prosegue: “Ieri, quella sentenza, ha rappresentato un esempio di normalità, dove ognuno può pensare di farcela. Non avrei mai pensato di arrivare a un percorso che ieri ha avuto il suo primo giro di boa. Io non avrei mai pensato di combattere la mafia, io ero il Presidente di un’area protetta. Ma questo prova che ognuno può fare la propria parte. Non è un problema di coraggio. Io non ho fatto le mie scelte perché sono coraggioso. C’è un tema di rapporto con se stessi. Quello che dico ai miei ragazzi. Io ho un chiaro convincimento di quello che significa morire. Si può morire in un attentato di mafia, come stava per accadere a me. Poteva essere un’altra strage di mafia. Muori una volta.ì – dice ancora – E poi c’è un altro modo di morire. Di alzarsi la mattina e guardarsi allo specchio e sentirsi sporchi. A quel punto muori ogni giorno. Io ho pensato, man mano che capivo che questa vicenda stava sovraesponendo la mia vita, ho pensato a quello specchio. Sì, facevo l’amministratore, dovevo servire le istituzioni, ma io in fondo ho tentato di fare il buon padre d famiglia”.
Ieri sera Giuseppe Antoci ha trascorso cinque ore, in attesa della sentenza, che slittava di ora in ora, a pochi passi dalle moglie, dai parenti, dalle sorelle dei 101 imputati. “Ho provato sinceramente una sensazione di pena, sono tornato a casa stanotte e la prima cosa che ho detto alla mia famiglia è stata: ‘Che pena’, non è mai una vittoria il carcere. E’ un fallimento di un pezzo del paese – dice Giuseppe Antoci -Ho avuto pena di loro. Chi è dentro questo sistema mafioso è vittima e a volte carnefice. Io provo pena per entrambi. Decine di persone condannate al carcere, e tantissime donne, tante madri, sorella. Che sono la spina dorsale del nostro paese. Ti mortifichi. Io non sono un manettaro, un giustizialista, penso veramente con tutto il cuore che nella vita bisogna avere la fortuna di nascere 50 metri prima o dopo di una periferia della città. Il nostro paese deve farsi carico di chi ha la sfortuna di nascere in un altro posto, bisogna dare la possibilità a queste persone di cambiare vita”.