Dopo vent’anni in territorio afgano, il contingente italiano ammaina la bandiera nella base di Herat, zona occidentale del Paese, e prepara la smobilitazione, già avviata nei primi di maggio, da Camp Arena. “Non vogliamo che l’Afghanistan torni ad essere un luogo sicuro per i terroristi” ha detto Lorenzo Guerini, ministro della Difesa, volato ad Herat per l’ammaina-bandiera che di fatto chiude la campagna italiana in Afghanistan. “Vogliamo continuare a rafforzare questo Paese – ha proseguito – dando anche continuità all’addestramento delle forze di sicurezza afghane per non disperdere i risultati ottenuti in questi vent’anni”.
Vecciarelli: “53 lacrime che non dimenticheremo”
Presente alla cerimonia anche Enzo Vecciarelli, capo di Stato maggiore della Difesa, che ha ricordato i militari morti in missione. “53 lacrime che non dimenticheremo”, ha detto dopo il minuto di silenzio osservato in onore ai caduti. Nelle prossime settimane termineranno le operazioni di rimpatrio (a inizio anno erano 800 i soldati nel Paese) e la base sarà consegnata alle forze di sicurezza locali.
Ma, come ha detto lo stesso ministro della Difesa, è difficile che la situazione in Afghanistan possa svilupparsi “in modo tranquillo e sereno”. Dall’annuncio del ritiro delle truppe statunitensi da Kabul, deciso da Donald Trump e confermato (posticipandolo dal primo maggio all’11 settembre) dal successore Joe Biden, sono tanti gli appelli delle organizzazioni umanitarie per il reinsediamento di personale afgano che ha collaborato con le forze occidentali. “Gli afgani che hanno lavorato con truppe o ambasciate straniere affrontano enormi rischi di ritorsioni da parte dei talebani – ha detto Patricia Gossman, direttore associato per l’Asia di Human Rights – I paesi con le truppe in partenza dovrebbero impegnarsi ad assistere chi si trova ad affrontare un pericolo per aver lavorato per loro”.
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La sorte dei collaboratori afgani
L’invito è rivolto anche a Roma, che nei giorni scorsi ha ricevuto diverse richieste di aiuto – come ricordato da Paolo Mieli sul Corriere della Sera – da 50 funzionari afgani che negli anni hanno lavorato per il contingente italiano. Guerini ha detto che il personale che ha collaborato non verrà abbandonato. “270 sono stati già identificati e su altri 400 si stanno volgendo accertamenti. Verranno trasferiti in Italia a partire da metà giugno”, ha detto il ministro della Difesa.
Un quadro instabile
Sono tanti, però, i “problemi non risolti” – per utilizzare una frase del segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, all’annuncio della fine della missione Resolute Support – lasciati in Afghanistan. Sul territorio il quadro resta instabile e i talebani, con i quali Washington si è ritrovata a negoziare il ritiro (la sconfitta americana), non sono ritenuti interlocutori affidabili nonostante le promesse di pace. Quanto potrà durare da solo il governo di Ashraf Ghani, “derubricato ad attore tra gli altri”, aveva scritto il giornalista Giuliano Battiston nel settembre 2020. L’obiettivo della missione della Nato Sostegno risoluto, iniziata nel 2015 con la fine dell’Isaf, era quello di addestrare le forze di sicurezza locali e facilitare una transizione verso uno Stato di diritto. È lecito domandarsi se il Paese si muoverà in questa direzione.