Era il 7 ottobre 2001 quando i primi missili americani atterrarono su Kabul, capitale dell’Afghanistan. Erano passate poche settimane dall’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre, l’attentato che più ha cambiato la geopolitica nei primi due decenni del ventunesimo secolo. Obiettivo dichiarato del governo statunitense, presieduto dall’allora presidente George W. Bush, era la testa di Osama Bin Laden, principale mandante e responsabile della strage alle Twin Towers.
Dopo l’11 settembre il leader di Al-Qāʿida, già ricercato dalla Cia dagli attentati alle ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania del 1998, si era rifugiato (forse) tra le montagne di Tora Bora, regione dell’Afghanistan orientale. Washington chiese l’estradizione di Bin Laden ai talebani, al potere in gran parte del Paese dal 1996 sotto il segno di un’interpretazione durissima della sharia, la legge islamica. I talebani, da talib, studente, movimento politico e religioso armato nato nel 1994 per sconfiggere i signori della guerra in seguito alla ritirata sovietica del 1989, negarono la richiesta degli Stati Uniti.
Nel 2001 ci vollero solo quattro settimane per rovesciare il regime talebano. Il 13 novembre l’Alleanza del Nord, composta dall’unione dei già citati signori della guerra afghani, entrarono a Kabul, dove era rimasto solo qualche cecchino che copriva la ritirata degli studenti coranici. Hamid Karzai, fantoccio di Washington, divenne il nuovo presidente del Paese. Ruolo che occupò fino al 2014, passando per due discusse elezioni (2004 e 2009). All’epoca, come raccontato nel controverso e criticato libro “Il Mullah Omar” di Massimo Fini, il motto era: “Adesso negoziati con tutte le etnie tranne che con i talebani”.
Dopo quasi diciannove anni Washington si è ritrovata a negoziare il ritiro delle truppe solo con i talebani. A margine il fronte istituzionale, presieduto dal presidente Ashraf Ghani, “derubricato ad attore tra gli altri”, ha scritto il giornalista Giuliano Battiston nel settembre 2020. L’accordo poi fu messo nero su bianco il 29 febbraio 2020 a Doha, Qatar. L’ex presidente Donald Trump preparava il ritiro, previsto per il primo maggio 2021, dei soldati dal territorio afgano, mentre i talebani si impegnavano a “rompere con al Qaeda e a rinunciare a ogni legame con il jihadismo transnazionale”. Un accordo “imperfetto, ma necessario – ha scritto sempre Battiston – per tentare di ridurre la violenza in Afghanistan”. Ma che segnala anche la sconfitta americana sul territorio.
Circa un anno dopo, il 14 aprile 2021, il nuovo presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha confermato il ritiro delle truppe dal Paese, facendo però slittare la data di qualche mese: 11 settembre 2021, esattamente vent’anni dopo l’attentato alle Torri Gemelle. Con i circa 3.500 soldati americani in Afghanistan torneranno a casa quasi 8.000 militari della Nato, tra cui 800 italiani. Anche la coalizione atlantica ha partecipato attivamente, a fianco del partner americano, alla missione afgana con due diverse operazioni: l’Isaf (Forza internazionale di assistenza alla sicurezza) dal 2003 al 2014 e dal 2015 Sostegno risoluto, una missione progettata per addestrare le forze di sicurezza locali e facilitare una transizione verso uno Stato di diritto.
“Riconoscendo che non c’è soluzione militare alle sfide che l’Afghanistan ha davanti a sé, gli alleati hanno deciso che inizieremo il ritiro delle forze della missione Resolute Support dal primo maggio”, ha detto ieri il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, in conferenza stampa nel quartier generale dell’Alleanza. Anche se nel Paese “ci sono molti problemi non risolti – ha proseguito Stoltenberg – abbiamo aiutato l’Afghanistan “a fare considerevoli progressi”.
Sono, però, quei “molti problemi non risolti” a gettare ombre su vent’anni di spargimenti di sangue e conflitti. Prosaicamente gli Stati Uniti hanno speso circa 2mila miliardi in questa guerra (l’Italia circa 8 miliardi fino al 2018) e il risultato è che “non esiste soluzione militare in Aghanistan”, spiega Battiston. “L’Afghanistan semplicemente non raggiunge il livello delle altre minacce a questo punto – ha raccontato una fonte al Washington Post – gli Stati Uniti devono concentrarsi sui propri interessi strategici nel mondo e contrastare le minacce più impellenti”.
Nonostante gli interessi americani, sul territorio afgano il quadro resta instabile. I negoziati intra-afgani procedono a rilento e un accordo interno sarà di difficile realizzazione senza le pressioni di Washington. Quale saranno gli sviluppi nel Paese alla partenza dei soldati? Una domanda che rischia di perseguitare Biden, ma soprattutto un’immensa sfida per la società civile afgana, colpita da due decenni di guerra senza giustificazione. O meglio: la giustificazione all’epoca era allontanare da Kabul i taliban, oggi pronti a spartirsi il potere. Il che rende sterile tanti anni di proclami e vuota la politica, al di là della retorica, anche nostrana.
Mario Bonito