Quel puzzo di sangue bruciato misto a polvere lo sente ancora. L’odore della morte Emiliano Asta lo porta con sé. Come se i nove anni trascorsi dall’attentato alla base di Adraskan in Afghanistan, in cui lui, insieme al maresciallo capo Dario Cristinelli, rimase ferito e il carabiniere scelto Manuele Braj perse la vita, fossero appena un soffio di esistenza. “Per anni ho provato un profondo senso di colpa – racconta in un’intervista all’Adnkronos -. Avrei dovuto esserci io al posto di Manuele, ma all’ultimo minuto, saliti sulla torretta di avvistamento, Salentino, questo era il suo nickname, mi disse: ‘Vado io alla mitragliatrice, tu prendi il binocolo’. L’esplosione lo colpì in pieno”.
Il 25 giugno 2012 Emiliano aveva 29 anni e quella vita l’aveva scelta. “Ho sempre fatto quello che mi piaceva, ho scelto reparti in cui potevo crescere professionalmente”. Nessuno in famiglia aveva seguito la carriera militare. Papà Pietro era un impiegato comunale ad Alcamo, nel Trapanese, oggi in pensione. “La mamma l’ho persa quando avevo appena otto anni”. Poi ci sono stati gli anni in collegio a Palermo, il ritorno a casa e i primi lavoretti.
“A 19 anni mi sono arruolato”. Stare dietro una scrivania non è mai stato il suo sogno e al 7/o Reggimento ‘Trentino Alto Adige’ Emiliano è arrivato dopo una lunga ‘gavetta’. Carabiniere ausiliario a Lampedusa dal 2002 al 2005 (“dove mi sono confrontato con l’emergenza sbarchi”), l’ingresso da effettivo nell’Arma, il corso in Sardegna e gli anni a Milano al 3º Battaglione Lombardia (“facevo ordine pubblico in giro per l’Italia”). Infine, le missioni all’estero.
La prima fu a Kabul, da aprile a novembre del 2011. “Il tempo giusto, perché i primi mesi servono ad ambientarsi – dice -, poi dal quarto quella vita inizia a sembrarti normale, impari a convivere con la tensione. Il sesto mese è pericoloso, la routine porta con sé un calo di attenzione fisica e mentale”.
Il primo impatto con quel mondo completamente nuovo lo ricorda come fosse ieri. “Uscivamo dalla base con le jeep blindate, nei villaggi alla periferia di Kabul tantissimi bambini ci venivano dietro. Correvano tra il fango e la sporcizia, pompavano l’acqua dal terreno e la trasportavano con le taniche, c’era polvere ovunque e vento. Facevi fatica persino a respirare. Non potendo fermarci, dai finestrini lanciavamo loro caramelle, cioccolatini, tutto quello che avevamo potuto portare con noi”.
Le donne avevano il burka. “Sotto avrebbe potuto esserci chiunque, capivi che era una donna dalla statura. La prima volta che vidi quella realtà pensai di essere fortunato: ero nato in Italia e avevo avuto la possibilità di scegliere il mio futuro”. Ma Kabul per lui era anche uno splendido cielo stellato. “Al buio quelle stelle sembrava di toccarle…”. Nel tempo libero c’era poco da fare. “Mi allenavo, cercavo di mantenermi sempre in una forma fisica perfetta. Una volta, mentre correvo, ci fu un’esplosione. Un container mi vibrò accanto e, invece di andare subito nel bunker, mi arrampicai sul muro per vedere che zona avevano colpito: vidi un enorme fungo di fumo nero e diedi l’allarme”. Correva con la pistola e la radio Emiliano.
“Eravamo sempre armati – ricorda -. Quando uscivamo dalla base addosso avevamo almeno 20 chili tra armi, elmetti, radio, giubbotto antiproiettile. Devi essere pronto a qualsiasi emergenza. La paura? Era una compagna di vita, ma eravamo stati addestrati a tenerla sotto controllo e a trasformarla in attenzione. La notte non si dormiva mai profondamente. Una mattina eravamo appena arrivati al poligono – racconta -. Con noi c’erano anche dei marines. Dopo qualche minuto ricevettero un messaggio di allarme e risalirono sui blindati per rientrare alla base. Decidemmo di farlo anche noi, percorrendo la ‘Violet’, la strada che unisce Kabul e Jalalabad. Una via solitamente molto trafficata, simile alle nostre autostrade: quella mattina, però, era deserta. C’eravamo solo noi e gli americani, pensai che saremmo rimasti vittima di un attentato”.
Non fu così. L’appuntamento con la morte arrivò alla sua seconda missione in Afghanistan. “Da Kabul ero rientrato i primi giorni di novembre e dopo quattro mesi, ad aprile, ero di nuovo in quel Paese, questa volta ad Adraskan. Una base in mezzo al nulla in cui si addestrava la polizia afgana”. Emiliano era un supervisore al poligono. “Qualche tempo prima c’erano stati degli attacchi, i talebani si erano infiltrati tra gli allievi dell’esercito afgano e avevano ucciso degli spagnoli. Pensai: ‘Ok, occorre stare ancora più attenti e tenere d’occhio tutti i movimenti'”.
La mattina dell’attentato, il 25 giugno del 2012, era una delle tante. “Un giorno come molti altri – ricorda -. Salii sulla torretta, un punto di osservazione da cui era possibile monitorare anche l’area esterna alla base e, come era mia abitudine, feci un check per controllare che fosse tutto in regola. Entrai e presi posizione. Salentino (Manuele Braj, ndr) arrivò poco dopo e mi disse: ‘Prendo io la posizione con la mitragliatrice, tu vai al binocolo’. Così mi posizionai dietro di lui. Qualche settimana prima dell’attentato avevano colpito un nostro magazzino che in linea d’aria si trovava poco distante dalla torretta. L’attenzione era massima”.
Il razzo colpì la parte anteriore della garitta. “Fui sbalzato all’indietro e nel buio vidi un fascio di luce”. La porta d’uscita. Era necessario scappare prima che i talebani colpissero di nuovo. “Cercai di alzarmi, ma non avevo le forze. Così iniziai a strisciare a terra, tra i resti dilaniati del povero Manuele. Ricordo ancora adesso la puzza del sangue bruciato, della polvere. Spalancai la porta e scesi la rampa di scale a testa in giù, una gamba si impigliò in un paletto, la liberai con forza e proseguii”. Non sentiva il dolore il giovane militare. “Il mio unico pensiero era salvarmi”.
Il calvario di Emiliano inizia da quel momento. Prima la corsa in infermeria su un pick up e poi il trasferimento su un elicottero in un ospedale da campo di Shirabad. “Ero pieno di morfina, salutai i miei compagni facendo il gesto del pollice in su, come per dire loro di tenere duro. Io andavo via, ero fortunato. Quel giorno ci furono altri attacchi nella base”. Nell’ospedale da campo la diagnosi è sbrigativa: occorre amputare la gamba destra. “Grazie ai vertici dell’Arma fu possibile evitarlo”. E così Emiliano, di nuovo in barella e di nuovo in volo, raggiunge Kandahar.
“Quando mi sono svegliato dall’operazione le mie gambe erano salve, ma attaccate a dei macchinari, che aspiravano i liquidi che il mio corpo produceva”. Lì in quell’ospedale a Kandahar, a due giorni dall’attentato, il giovane carabiniere scelto italiano finalmente ha il primo contatto telefonico con la famiglia. “Pochi minuti, giusto il tempo per rassicurare mio padre. ‘Sono in buone mani, va tutto bene’, gli dissi”. Andava bene perché era vivo, ma troppo debole per affrontare il rientro in Italia. “Mi portarono nella base americana di Bagram, dove venivano condotti tutti i feriti, e mi fecero delle trasfusioni di sangue. Accanto a me c’era un interprete afgano con il corpo dilaniato”.
Il viaggio sul C-17 che lo avrebbe condotto in Germania, a Ramstein, lo ricorda come “il più pesante della mia vita”. “Avevano allestito l’aereo a scompartimenti, come fosse un magazzino, prima di imbarcarmi mi avevano dato della morfina, ma i dolori erano atroci”. L’arrivo a Roma a bordo di un C-130 avviene dopo qualche giorno, l’1 luglio. “In aeroporto trovai ad attendermi anche mio padre, fu un’emozione fortissima, scoppiai in un pianto liberatorio”.
Al rientro in Italia seguirono i lunghi mesi di riabilitazione al Policlinico militare del Celio. “E’ stato un percorso difficilissimo, un virus contratto in Afghanistan rallentava la mia guarigione, arrivai a pesare 68 chili”. Prima di tornare nella sua Alcamo, appena dimesso dall’ospedale, Emiliano ha voluto ‘chiudere’ la sua missione. “Sono passato dal Comando di Laives, per salutare i colleghi e la bandiera”, ricorda commuovendosi ancora. Nei mesi successivi gli appuntamenti in ospedale al Celio proseguirono. “Andavo a fare riabilitazione in day hospital”.
Nel 2016 Emiliano ha ricevuto una medaglia d’oro e nello stesso anno si è congedato. Oggi è sposato (“Mia moglie l’ho conosciuta al Celio, faceva servizio nel reparto di Ortopedia, anche lei nelle forze armate, primo caporal maggiore scelto. Mi ha dato la forza di andare avanti nei lunghi mesi della convalescenza”) e padre di due bimbi: la piccola Beatrice e il primogenito Pietro Manuele, nato un anno dopo l’attentato.
“Ho voluto onorare sia mio padre che Manuele Braj. Grazie a lui sono vivo”. La voce è rotta dalla commozione. “Era un ragazzo d’oro, ci capivamo con lo sguardo. E’ stata una grande perdita. Aveva un bimbo di pochi mesi e mi diceva sempre che non vedeva l’ora di tornare a casa per portarlo a mare, immaginava i primi bagnetti insieme. Sognava i momenti di libertà, quelli che non potevamo vivere in Afghanistan…”.
Guardando indietro non ha dubbi. “Ogni mattina ho bisogno della stampella per alzarmi. Non corro più, non riesco a fare percorsi lunghi a piedi. La mia vita è cambiata. Alcuni giorni il dolore è insopportabile, ma ripartirei di nuovo, rifarei tutto”, dice. Le notizie della presa di Kabul sono un pugno dritto al cuore. “Riaprono una ferita mai rimarginata, ma il sacrificio dei nostri militari in Afghanistan non è stato vano, ha permesso a tante donne e bimbi di conoscere una vita diversa. Adesso occorre non abbandonarli”.
di Rossana Lo Castro