Hanno salvato bambini dalla calca all’aeroporto di Kabul, prestato cure, offerto cibo, acqua, medicinali. Hanno aiutato a scappare quanti erano nelle liste di evacuazione e dato supporto a quanti, pur non essendo in quelle liste, erano arrivati allo scalo con la speranza di riuscire a salire su un volo. Tra le Forze speciali impegnate nel ponte aereo dall’Afghanistan nelle scorse settimane, c’erano anche i militari del Gruppo operativo incursori (Goi) del Comando Subacquei ed Incursori (Comsubin) della Marina Militare (Fotogallery).
A testimoniare all’Adnkronos il loro lavoro in prima linea per l’evacuazione della popolazione durante le drammatiche giornate consumate all’aeroporto di Kabul è Giuseppe Cossu, incursore della Marina Militare in congedo, che dà voce al grandissimo lavoro dei colleghi, una testimonianza preziosa dell’impegno svolto sul campo con determinazione e sacrificio dagli incursori del Goi, protagonisti dell’operazione umanitaria di evacuazione nello “scenario apocalittico” dello scalo aeroportuale.
Già perché parlando delle forze speciali il pensiero va ai reparti di elite in mimetica, altamente addestrati e pronti a scendere in campo nelle situazioni più ostili ed estreme. “Ma le Forze speciali sono fatte di persone con un lato umano importante, impegnate per salvare vite. E infatti quando sono stati chiamati tanti hanno sentito il dovere di andare, spinti da una forte motivazione legata alla missione ventennale vissuta lì”, sottolinea l’incursore in congedo. E stavolta, in Afghanistan, i compiti non erano solo volti alla sicurezza: “Con spirito di abnegazione si sono adoperati per fini umanitari davanti a una situazione tragica”.
Il Goi, chiamato ad operare con brevissimo preavviso in situazioni di emergenza, è tra le migliori Unità di forze speciali marittime al mondo. Quelle che il grande pubblico conosce semplicisticamente come rambo o con l’espressione “teste di cuoio”. “Si sono trovati davanti uno scenario apocalittico dove migliaia di persone cercavano di varcare i cancelli ed entrare in aeroporto per trovare un porto sicuro – racconta – Hanno prestato cure e dato una mano, tirato fuori dalla calca bambini, senza entrare in conflitto con i talebani, presenti davanti ai muri”. “Hanno cercato di evacuare il più possibile tutte le persone presenti nelle liste e dato supporto a chi nelle liste non c’era, ma aveva bisogno di medicine, di cibo, di acqua, di supporto morale”, afferma ancora.
“Alcune donne disperate non riuscivano ad avvicinarsi ai gate, erano rimaste da sole perché i mariti, interpreti, erano stati già evacuati tempo fa e non pensavano di ritrovarsi nel giro di pochi giorni con le loro famiglie ricercate in Afghanistan – è il racconto riferitogli dagli interpreti e dagli amici afghani che grazie all’encomiabile lavoro degli incursori sono riusciti a scappare in Italia – La base italiana era ad Herat, c’era chi ha fatto un viaggio della speranza, circa 30 ore di macchina fino a Kabul, per riversarsi nello scalo per tentare di prendere un volo”.
Tra gli incursori della Marina Militare, che hanno contribuito a salvare numerose donne e bambini con spirito di sacrificio e determinazione, “c’è preoccupazione. Lì ci sono ancora tante persone che hanno bisogno di aiuto ed è impossibile agire. Qualcuno ha passato ammutolito il viaggio di rientro pensando alle persone rimaste lì, persone che hanno collaborato con il nostro Paese e ci hanno aiutato a portare a termine operazioni importanti”.
Il tragico epilogo non può e non deve cancellare i venti anni di missione e i risultati raggiunti. “Quello degli incursori è un reparto di eccellenza, l’unico al quale per accedere all’agognato basco verde, bisogna completare tutte le fasi, acqua (la specialità), terra e aria”, spiega ricordando il lavoro svolto dal Goi in Afghanistan per il contrasto al terrorismo e per formare le forze speciali locali. “Non è vero che le forze speciali locali si sono arrese e il lavoro dei nostri militari non è servito – osserva – Le forze speciali afghane addestrate dagli incursori del Goi non si sono arrese. Il problema sta nell’esercito regolare afghano, divenuto una sorta di ammortizzatore sociale, mentre nelle forze speciali c’erano motivazioni reali e dimostrazione di civiltà. Ricordo ancora un cuoco che negli anni passati non risultò idoneo alle selezioni e ci chiese in tutti i modi di essere di aiuto nella lotta ai talebani perché avevano colpito il suo villaggio e ucciso la sua famiglia. Così gli fu trovato un ruolo ai fornelli per le forze speciali afghane”. “Sono fiero di aver fatto parte di questo corpo speciale: un ‘Bravo Zulu’ a tutti”, conclude.