Davvero una brutta vicenda quella per la quale, oggi da Strasburgo, è giunta allItalia una pesante e brutta condanna. Ma andiamo per ordine. Tutto ha inizio a Remanzaccio nel 2012 dove, Elisaveta Talpis, una cittadina romena, esasperata dalle continue botte e violenze subite dal marito, ne aveva denunciato più volte la gravità alle forze dellordine. Ripetute ed inaudite le angherie subite dalla poveretta: minacciata con un coltello e costretta ad avere rapporti sessuali con amici del marito, ricovero in ospedale per lesioni multiple, ed il conseguente riparo un’associazione dedita all’assistenza delle vittime di violenza. Dopo 3 mesi, però, la Talpis sarebbe stata costretta a lasciare la struttura e solo dopo aver dormito in strada avrebbe trovato una sistemazione presso un’amica. A settembre, una nuova denuncia nei confronti del marito. Il 4 aprile 2013, la donna “è stata ascoltata per la prima volta dalla polizia e ha modificato le proprie dichiarazioni alleggerendo le accuse” nei confronti del marito. La situazione è precipitata alla fine dell’anno. Al culmine di un violento litigio col padre padrone, in difesa della madre, il figlio veniva accoltellato a morte. Come ricorda la Corte di Strasburgo ricostruendo la terribile vicenda: “Il 25 novembre 2013 la signora Talpis ha chiamato di nuovo la polizia per una lite con il marito, portato in ospedale in stato di ebbrezza. Dopo essere stato dimesso, l’uomo alle 2.25 è stato fermato in strada e identificato mentre camminava ubriaco. E’ stato multato e gli è stato permesso di tornare a casa. Attorno alle 5 del mattino, armato di un coltello da cucina è entrato nell’appartamento abitato dalla famiglia e ha aggredito la donna. Ha accoltellato suo figlio, che aveva cercato di separare i genitori. Il ragazzo è morto per le ferite riportate”. La madre è stata ripetutamente colpita al petto. L’assassino è stato condannato all’ergastolo a gennaio del 2015. Sulla base di tutto ciò la Corte europea dei diritti umani ha quindi condannato il nostro paese che non ha “protetto una madre e suo figlio” e in particolare “non ha adottato tempestivamente le misure” necessarie “dopo una denuncia per violenza coniugale”. La condotta delle autorità, si legge, ha creato “una situazione di impunità favorevole alla reiterazione di atti di violenza che hanno poi portato al tentato omicidio” della donna “e alla morte del figlio”. Motivo per cui, sulla base degli atti, la Corte -con 6 voti contro 1- ha ritenuto che sia stato violato l’articolo 2 (diritto alla vita) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. All’unanimità, il collegio ha decretato la violazione dell’articolo 3 (Proibizione della tortura) e, con 5 voti contro 2, ha ravvisato la violazione dell’articolo 14 (Divieto di discriminazione) abbinata agli articoli 2 e 3. Le vittime si legge ancora – hanno vissuto in un quadro di violenza tanto grave da giustificare la definizione di maltrattamenti”. Se ne evince, secondo la Corte, che le autorità italiane non hanno operato in maniera adeguata e, in particolare, hanno agito in maniera “incompatibile” con l’articolo 3 della Convenzione. La signora è stata vittima di discriminazione come donna”, afferma la Corte stigmatizzando “l’inazione delle autorità che hanno sottovaluto la violenza in questione e essenzialmente l’hanno avallata”. Una condanna umiliante per il nostro Paese, che tra qualche giorno si appresta a celebrare la festa della donna in pompa magna
M.