(Adnkronos) –
Sharing economy. Accesso contro possesso. E’ difficile dire quale modello di business prevarrà in futuro, quello che è certo è che la “sharing economy” (l’economia della condivisione e dell’accesso) sembrava vivere prima della pandemia una crescita dirompente e inarrivabile. La sharing economy in sé è un modello di business né nuovo né particolarmente innovativo: è Internet che la trasforma moltiplicandone in maniera esponenziale i numeri e la capillarità dei servizi. Per intenderci: la vecchia rete di B and B (Bed and Breakfast) può essere considerata l’antecedente di Airbnb (la piattaforma on line che consente di affittare camere e/o appartamenti) però quest’ultima in poco tempo è arrivata ad offrire un milione e mezzo di camere divenendo di gran lunga la più grande catena alberghiera del mondo (senza possedere alcuna stanza), un fenomeno sociale oltre che economico. E ha segnato una strada che, come detto, ha attirato moltissimi: infatti, al di là dei nomi più noti (la stessa Airbnb e Uber), si possono contare oltre 131 piattaforme solo per affittare una casa, 51 per acquistare beni usati, 59 per donazioni, 59 per scambi alla pari, 60 per prendere in prestito qualsiasi cosa e questi dati sono necessariamente incompleti perché in questo contesto nuove iniziative nascono e muoiono piuttosto velocemente. Peraltro, secondo la rivista Forbes, “i redditi che fluiscono direttamente dalla sharing economy nei portafogli della gente sorpassano già 3,5 miliardi di dollari”. Questo è un punto fondamentale: va detto infatti con chiarezza che la sharing economy nel mondo della Rete nulla a che fare con la carità, con la beneficenza, con la mutualità e il non profit (tutti concetti un tempo collegati all’economia della condivisione): qui si sta parlando di imprese miliardarie, autentiche multinazionali che fanno profitti a palate e vogliono continuare a farli. E che beneficiano tanto quanto le mitiche Over the Top (le grandi aziende high tech che dominano la Rete) dei buchi nelle legislazioni sia nazionali che internazionali nonché della libertà dai vincoli regolamentari garantita da Internet. Qualche esempio: per gestire un B e B ci vuole in tutti i Paesi d’Europa una licenza, per affittare stanze o case su Airbnb non c’è sostanzialmente bisogno di nulla; e poi, gli autisti di Uber vanno considerati come dipendenti (con tutto quello che ne consegue)?; i “baratti” sulle piattaforme di scambio “alla pari” sono soggetti all’imposta sul valore aggiunto? Durante la pandemia si è sviluppata la cosiddetta “Glovo-economy” anch’essa una forma di sharing anche se peculiare: Uber eat, Deliveroo, lo stesso Glovo. Deliveroo si è quotata nel post pandemia nel 2021 ma le sue azioni in questi due anni hanno perso oltre l’80% del valore (da 3,86% sterline ai 92 pence attuali); Uber ha incontrato crescenti problemi ed ha perso l’80% del proprio valore al 2021. E non è un caso neppure la stessa rivolta dei parigini contro i monopattini elettrici. Che vuol dire tutto ciò? Forse che il modello che prevedeva l’accesso senza il possesso (non hai bisogno di comprare le cose quando puoi usare quelle degli altri messe in Rete) non è poi così convincente (magari perché è pericoloso entrare in un business completamente privo di regole condivise) e per paradosso i mercati lo hanno capito proprio durante i lockdown della pandemia quando la condivisione sembrava l’unica chiave del domani.
Musica. Il Promemoria musicale di questa settimana è per un brano tratto dall’ultimo recentissimo album di The National (il quintetto di Cincinnati da poco riformatosi dopo un periodo di diaspora) “First two pages of Frankestein” ed eseguito insieme alla straordinaria Phoebe Bridgers (forse il meglio che offre oggi la nuova musica pop americana) dal titolo “Your mind is not your friend, la tua mente non è tua amica”. Un tema dolce e melanconico in cui l’arrangiamento elettronico si dipana addirittura in un ritmo di valzer reso struggente dalla voce magnetica della Bridgers. Da sentire e risentire. (Di Mauro Masi)