(Adnkronos) – Per 13 anni ha usato il cellulare in media 2 ore e mezza al giorno per motivi di lavoro e quando ha scoperto di essere affetto da un tumore benigno all’orecchio ha chiesto all’Inail che gli venisse riconosciuta una rendita da malattia professionale e la Corte d’Appello di Torino, con una sentenza pubblicata lo scorso 2 novembre, gli ha dato ragione. Protagonista un tecnico specializzato di un’azienda valdostana ora in pensione, assistito dagli avvocati torinesi Renato Ambrosio e Stefano Bertone. L’uomo, che a seguito del tumore ha riportato, secondo referti medici, sordità sinistra, paresi del nervo facciale, disturbo dell’equilibrio e sindrome depressiva, si era già rivolto al tribunale di Aosta che aveva riconosciuto il nesso causale tra l’utilizzo del cellulare e l’insorgenza del neurinoma del nervo acustico stabilendo per il lavoratore il pagamento di una rendita di circa 350 euro al mese, ma l’Inail aveva fatto ricorso in appello chiedendo una nuova consulenza.
La Corte d’Appello di Torino ha, quindi nominato un nuovo consulente, l’ otorinolaringoiatra torinese Roberto Albera, che dopo numerosi incontri e scambi di memorie con i consulenti delle diverse parti in causa ha confermato che ” esiste un’elevata probabilità che fu il cellulare a causare il tumore anche in relazione all’esclusione dell’intervento di fattori causali alternativi” . Nella sostanza, secondo la perizia, “in assenza di possibili cause, vi è la presenza di un unico fattore di rischio costituito da un’esposizione prolungata a radiofrequenze”. Negli anni il lavoratore avrebbe usato per lavoro il cellulare tra le 10 e le 13 mila ore.
“Si tratta di una sentenza scritta da scienziati fra scienziati in cui il ruolo dei giuristi è stato marginale – sottolineano gli avvocati Ambrosio e Bertone – che dimostra che le radiofrequenze possono causare tumore. Le radiofrequenze, infatti, a differenza dello scarico di un motore diesel che si percepisce con l’olfatto o della lama di un coltello che si percepisce con il tatto, si percepiscono solo con i rilevatori elettrici. I wi.fi, le cosiddette ‘saponette’, gli ‘hotspot’ emettono e ricevono tutte radiofrequenze. La distanza resta dunque il miglior alleato e non andrebbero mai tenuti a contatto con il corpo”.