(Adnkronos) – “Se durante la pandemia in Italia ci fossero stati i distretti socio sanitari progettati da Pasquale Trecca”, che fu presidente dell’Associazione nazionale dei medici condotti italiani, “si sarebbe potuta garantire una più tempestiva assistenza sanitaria e rapidità di risposta, perché in ogni distretto ci sarebbe stato il ‘medico di comunità’. Questa figura avrebbe riassunto in sé quella del medico dipendente che assolve ai compiti istituzionali di Igiene e Sanità pubblica, insieme al suo aspetto di medico convenzionato di medicina generale che avrebbe avuto un rapporto con i pazienti e col territorio”. Lo spiega all’Adnkronos Salute Italo Farnetani, professore ordinario di Pediatria dell’università Ludes-United Campus of Malta e storico della medicina.
In tempi di Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e di riflettori puntati sulla riforma territorio, il tema è caldo. L’esperto lo ha affrontato oggi a Foggia in occasione di un convegno in cui si è fatto il punto su come dovrebbe configurarsi il sistema sanitario dopo l’epidemia Covid-19. Farnetani parte dalla lezione proprio di un medico di Foggia, Trecca, che “collaborò all’elaborazione della riforma sanitaria del 1979 in cui propose di trasformare le condotte mediche esistenti in Italia da 90 anni, in distretti socio sanitari che sarebbero dovuti essere presenti in tutto il territorio nazionale”.
Seguendo la via tracciata da Trecca, il pediatra propone “l’attivazione dei distretti socio sanitari che, a differenza delle attuali Case della salute, devono essere più diffusi nel territorio e non limitarsi solo all’erogazione di prestazioni assistenziali, ma essere anche un punto di raccordo con le istituzioni sanitarie comunali, aziendali e regionali”. Questa presenza, prosegue, “è importante anche per poter creare un flusso di dati dal territorio alle aree centrali. Il risultato sarebbe stato diagnosi, trattamento e prevenzione precoce e un più alto numero di vaccinati”.
Per questo secondo il pediatra sarebbe importante la riapertura dei distretti e il ripristino del ruolo di medico di comunità. “Durante la pandemia – ricorda – all’inizio si è dovuto garantire l’assistenza ospedaliera, subito dopo l’attività dei laboratori per garantire diagnosi e tracciamento. Terzo punto: si dovevano individuare i pazienti positivi. Quarto punto: la ricerca dei pazienti fragili. E un medico presente nel territorio avrebbe avuto degli elementi di conoscenza delle realtà locali e delle persone che sarebbero stati fondamentali e avrebbe potuto facilitare ogni compito”.
“Ultimo punto: la campagna vaccinale. Senza dubbio il contributo del medico di comunità qui sarebbe stato determinante – è convinto l’esperto – in quanto avrebbe potuto rappresentare un contatto diretto tra medico e paziente”.