(Adnkronos) – (dall’inviata Elvira Terranova) – Il falso pentito di mafia Vincenzo Scarantino, durante gli interrogatori, “non aveva suggeritori” e “non subiva alcuna pressione da parte dei poliziotti”. Lucia Falzone, ex legale dell’ex collaboratore di giustizia che ha accusato ingiustamente nove innocenti della strage di via D’Amelio, dopo diverse sollecitazioni da parte del Tribunale di Caltanissetta e una perizia medica, oggi si presenta all’aula bunker del carcere Malaspina sulla sedia a rotelle. In poco più di due ore la legale, che oggi non esercita più la professione per i problemi legati al suo stato di salute, ripercorre il periodo in cui aveva assistito l’ex pentito, oggi fuori dal servizio di protezione.
Il processo vede alla sbarra tre poliziotti, Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, ex appartenenti del ‘Gruppo Falcone-Borsellino’, che nel 1992 indagò sulla strage in cui vennero uccisi il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. Sono tutti accusati di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra. Secondo l’accusa, i tre poliziotti avrebbero indotto Scarantino a fare false rivelazioni allo scopo di depistare le indagini. Ma oggi l’avvocata Falzone sostiene che Scarantino “aveva difficoltà espressive che forse si traducevano in un italiano non elegante, non forbito, ma sicuramente nessuno gli suggeriva niente”. A differenza di quanto ritiene l’accusa.
Rispondendo alle domande dell’avvocato Giuseppe Panepinto, legale di Mario Bo, che le chiede se le risulta che durante gli interrogatori ci fossero state lunghe sospensioni, risponde: “Io non ricordo sospensioni durante gli interrogatori, tranne brevi pause per motivi fisiologici”. Per poi ribadire: “Sicuramente nessuno gli suggeriva niente”. “Durante gli interrogatori c’era solo un generico invito a dire la verità e niente altro”, aggiunge. E alla domanda se ci fossero delle “esternazioni” da parte dei magistrati, Falzone replica: “A fronte di alcune risposte che Scarantino dava, il magistrato cercava, come è normale che fosse, di puntualizzare o fare domande che andassero a scavare un po’ più a fondo. Dopodiché non c’era nessuna anomalia o irregolarità. Il comportamento delle persone che hanno operato alla mia presenza è stato assolutamente irreprensibile”.
Poi Lucia Falzone ha anche sottolineato, sollecitata dall’avvocato di parte civile, Giuseppe Scozzola: “Se Scarantino fosse stato in possesso di alcuni verbali, sicuramente gli avrei chiesto come li aveva avuti. Era concentrato solo sulle sue lamentele personali e le sue problematiche familiari, la paura che lo ammazzassero o che gli ammazzassero i familiari, ma certamente nei meandri di Scarantino non riuscivo ad entrare…”. Rispondendo alle domande del Presidente del Tribunale, Francesco D’Arrigo, che le chiede se ha mai saputo di eventuali maltrattamenti subiti dall’ex pentito quando era in carcere, come raccontato più volte dallo stesso Scarantino, Falzone ha spiegato: “Vincenzo Scarantino, quando era il mio assistito, non mi parlò mai né di maltrattamenti che avrebbe subito in carcere né di avere ricevuto pressioni da parte di poliziotti”.
“Ho assistito Vincenzo Scarantino intorno al 1994 – racconta ancora Lucia Falzone – Poi, a seguito di una nomina d’ufficio, che mi era pervenuta l’assunzione della difesa di Scarantino. Era stato già seguito da altro difensore in fase di indagine. Io ho assunto il mandato difensivo trasformato in mandato fiduciario, quando era già stato verbalizzata la maggior parte delle sue dichiarazioni. Poi l’ho seguito nel procedimento di primo grado per la strage di via d’Amelio e dopo di che l’ho assistito nel dibattimento Borsellino bis, dove venne citato. Successivamente, nel 1996, in data successiva al 12 luglio, mi sono premurata di predisporre una rinuncia al mandato che venne depositata alla Procura di Caltanissetta”.
Alla domanda del Presidente del Tribunale sul perché avesse accettato la difesa di Scarantino, Lucia Falzone ha replicato: “Erano momenti molto difficili, c’era ancora l’eco visiva e quasi olfattiva dell’orrore delle stragi, non c’era nessuno a Caltanissetta disponibile a occuparsi di collaboratori di giustizia, non c’era nessun altro e venni così nominata d’ufficio”. “Era una normale attività difensiva di uno che decise di collaborare, e la partecipazione di lunghi interrogatori – dice – Era in una località del Nord Italia, una vicenda molto complessa”. Ricorda che era un “periodo di conflittualità con la sua famiglia. Forse nel Centro Italia – dice Falzone – Ma non vi fu nessun rapporto personale con Scarantino, altrimenti il rapporto professionale sarebbe stato vanificato. Era solo un problema di linguaggio, di italiano, nient’altro. Ma non vi furono problemi di comprensione. Non entrava in contraddizione, per me è stato sempre intelligibile il percorso che si prefigurava”.
Sul fatto se avesse mai registrato eventuali ripensamenti rispetto alla collaborazione nel corso della sua difesa, Lucia Falzone ha risposto: “La vicenda fu quella di una persona con fragilità intellettuale e personale di Scarantino, con i figli e con la moglie che continuarono a vivere per un periodo a Palermo e questo era un problema, gli creava ansia”. Parlando poi del periodo in cui Scarantino decise di non collaborare più con i magistrati e avere fatto una serie di ritrattazioni, Falzone ha detto: “La vicenda fu eclatante ma non mi occupavo più di lui, avevo rinunciato al mandato per ragioni di sopravvenute incompatibilità processuale, ma la sua vicenda processuale si era già definita”. “La vicenda della ritrattazione mi riguarda personalmente – dice ancora – venni anche io denunciata da Scarantino, venni poi sentita in una fase preliminare da un avvocato incaricato dal Consiglio dell’ordine e rispetto al’accusa dell’esposto, portai prova documentale che la circostanza non corrispondeva al vero”. E spiega il motivo dell’esposto: “Io avrei avuto un ruolo nella scelta processuale di Scarantino di non impugnare la sentenza”. “Invece scoprimmo delle dichiarazioni precedenti in cui aveva detto che era stata una sua scelta che la sentenza diventasse definitiva”.
Ribadisce anche più volte di non sapere “dove era allocato Vincenzo Scarantino, non ho mai saputo in quale località risiedesse nessuno dei miei assistiti. Non è previsto che l’avvocato venisse a conoscenza, anche con altri assistiti”. “Quando non poteva vedermi, chiedevo l’autorizzazione al Ministero della Giustizia per una località terza, non sapevo fosse a San Bartolomeo a Mare”, dice rispondendo alle domande del pm Stefano Luciani. Poi il Pm le chiede quando diventò difensore del falso pentito. “Mi venne notificata la nomina di Vincenzo Scarantino e il mio nome venne estratto dall’elenco degli avvocati d’ufficio – dice- Il mio nome circolava in procura e dappertutto, perché avevo già difeso altri collaboratori di giustizia ma nessuno mi chiese se ero disponibile ad assistere Vincenzo Scarantino. Cominciai il mio mandato difensivo da subito”. Ma il Pm Luciani spiega che dai verbali emerge che nei primi tre interrogatori Falzone non era presente. “E’ in contraddizione rispetto a quanto mi ha appena detto – spiega il magistrato – visto che nei primi tre interrogatori non era presente”. E l’avvocata replica: “Evidentemente il mio ricordo è errato”. “Io lasciai il mandato di Vincenzo Scarantino, per incompatibilità, in una data successiva al 12 luglio del 1996 quando ricevetti il mandato da Giovambattista Ferrante. Feci una valutazione che mi imponeva di adottare l’accortezza e decisi di rinunciare”, dice poi. Alla domanda dell’avvocato Giuseppe Scozzola sul perché ci fosse incompatibilità, l’avvocata ha detto: “Forse una mia intuizione. Una scelta prudente, in primis per la corretta difesa dell’uno e dell’altro e anche una scelta personale e professionale di tipo etico”.
Poi, nel corso della deposizione, Lucia Falzone ha parlato anche di un altro ex collaboratore che ha avuto come assistito, Salvatore Candura. “Non perdeva occasione per fare riferimento alla sua crisi emotiva che ebbe quando aveva riconosciuto nella macchina esplosa in Via d’Amelio l’auto da lui rubata”, dice Falzone. Candura è l’uomo che aveva detto di aver consegnato la Fiat 126 utilizzata nella strage del 19 luglio 1992 all’ex picciotto della Guadagna Vincenzo Scarantino. Dichiarazioni smentite molti anni dopo dall’ex boss di Brancaccio Gaspare Spatuzza. Il primo dicembre del 2015 la Cassazione aveva annullato senza rinvio la sentenza di condanna a nove anni in appello per Salvatore Candura, per calunnia, nell’ennesimo processo sull’eccidio nel quale morirono il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. Il 13 marzo 2013 Candura era stato condannato con rito abbreviato a 12 anni per calunnia aggravata assieme ai collaboratori Gaspare Spatuzza (15 anni) e Fabio Tranchina (10 anni). Secondo i giudici l’ex sodale di Scarantino avrebbe mentito ai magistrati con dichiarazioni che in precedenti processi avevano portato a condanne di persone estranee alla strage di via D’Amelio. Il filone d’inchiesta era nato dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza che avevano portato anche alla scarcerazione di mafiosi e presunti mafiosi già condannati in via definitiva a seguito delle dichiarazioni del falso collaboratore Vincenzo Scarantino.
Il processo è stato rinviato al prossimo 23 marzo per una udienza interlocutori di prove. E nelle udienze successive inizierà la requisitoria. La data è ancora da stabilire. L’accusa ha chiesto al Tribunale di potere iniziare non prima di maggio.