(Adnkronos) – “L’aggressione russa all’Ucraina sembra indurci -insieme- all’indignazione e alla rassegnazione. Ma forse più alla seconda che alla prima. Come se la sua brutalità nutrisse più la nostra paura che il nostro sdegno. Sarà il caso di rifletterci. E magari anche di cercare di reagire.
Le generazioni meno recenti si erano fatte le ossa manifestando contro guerre e invasioni, mobilitandosi in nome dei popoli derelitti, indignandosi contro le grandi potenze dell’epoca. Le nostre strade si sono riempite volta a volta di bandiere (soprattutto americane) bruciate e di parole d’ordine e canti di libertà con cui si voleva celebrare la nostra solidarietà contro ogni oppressione.
Chi ha qualche anno in più conserva memoria delle proteste contro gli americani per il Vietnam, di quelle meno affollate contro i sovietici per la Cecoslovacchia e via via elencando l’infinità di cause nobili e generose, giuste e meno giuste, che hanno risvegliato le passioni e le controversie dell’epoca. Il Medio Oriente, l’America Latina, l’Africa. Tutti i luoghi nei quali si combattevano guerre fredde e guerre calde, a volte caldissime. A ognuna delle quali la nostra immaginazione contava di dare l’apporto di una presenza, sia pure simbolica.
Ci si illudeva di cambiare il corso delle cose. Magari qualche volta la passione prendeva un corso geopolitico che poteva essere discutibile. E la tendenza a prendercela soprattutto con il nostro ingombrante alleato americano alle volte spingeva a trascurare molte altre nefandezze che prendevano forma da altre parti. Ma tant’è. Quelle sfilate di giovani ansiosi di cambiare il mondo evocavano una vocazione civile profonda e sentita.
Ora, di tutto questo sembra rimasto assai poco. Sia reso onore al merito di Enrico Letta, che almeno ha radunato davanti all’ambasciata russa i suoi dirigenti e militanti in segno di protesta. Ma quel merito, che in altri tempi sarebbe stato giudicato quasi come un’ovvietà, spicca appunto perché da altre parti s’è sentito soprattutto il silenzio. Ed è quel silenzio che parla di noi, del nostro torpore civile, della nostra paura di dar voce a noi stessi.
Già, perché non c’è alcun dubbio che l’aggressione di Putin all’Ucraina strida, oltre che con il diritto internazionale, con le più basilari regole democratiche su cui è fondato il nostro paese. E per quanto la Realpolitik abbia potuto suggerire prudenza e circospezione c’è qualcosa nella brutalità di quella guerra -perché di guerra si tratta- che dovrebbe spingere le nostre forze politiche e la nostra opinione pubblica a rivendicare con molta più decisione le ragioni degli aggrediti.
Non si tratta certo di scendere sul terreno della contesa militare, ci mancherebbe. Ma neppure di affidarsi con animo tremebondo a note di protesta redatte in punta di penna e a sanzioni comminate con il bilancino del farmacista. Quello che è in gioco, infatti, non è solo l’amaro destino del popolo ucraino (che già di per sé meriterebbe un po’ di calore in più). Ma è la capacità delle democrazie storiche, chiamiamole così, di far valere le loro ragioni nel bel mezzo di una turbolenza internazionale così avventurosa.
Sarà il caso di ricordare che appena sei mesi fa siamo fuggiti a gambe levate dall’Afganistan riconsegnato ai talebani, sia pure nella loro versione (almeno per ora) più soft. E che davanti a noi tutti pende la questione di Formosa, a cui la leadership cinese sembra avere intenzione di dedicare tutte le sue cure non appena sarà possibile. Per non dire di Hong Kong, già accaparrata in quattro e quattr’otto in barba a un accordo con la Gran Bretagna che si è rivelato fragile come la carta velina.
Forse sarebbe allora il caso di dedicare a questi argomenti qualche grammo di passione civile in più. E invece il prudente, atterrito silenzio con cui seguiamo gli sviluppi della tragedia ucraina segnala la difficoltà di tutti noi a vivere fino in fondo una stagione che si annuncia gravida di rischi e di dolori. Anche per noi, protetti da una distanza di appena qualche centinaio di chilometri”.
(di Marco Follini)