(Adnkronos) – “Avviata la legislatura verso la sua china discendente, verrebbe da pensare che forse siano in discesa anche le sorti del populismo, sospinte da molti errori e da molte delusioni. Eppure non è detto che questo pensiero sia così realistico né così profetico come si auspica.
Certo, i due protagonisti del primo scorcio di questa legislatura, cinquestelle e leghisti, sono a mal partito tutti e due. Da una parte il destino della leadership di Conte riposa al momento in grembo alla magistratura napoletana e ai mutevoli umori di Beppe Grillo. Dall’altra il fulgore di capitan Salvini risulta appannato, per usare un eufemismo, dalla partita del Quirinale.
Ovviamente dietro le due crisi più evidenti c’è molto altro da annotare. Innanzitutto l’errore strategico di quattro anni fa, il governo gialloverde. Un esperimento fallimentare, che ha rischiato di farci trovare ai margini del contesto europeo e si è concretizzato nelle misure più discutibili che si potessero prendere sul fronte dell’economia: reddito di cittadinanza e quota 100. Tant’è che dopo poco più di un anno di faticosa convivenza i due populismi si sono dissociati l’uno dall’altro. Salvo poi, dopo un lungo giro, trovarsi accomunati nella maggioranza raccolta intorno al più antipopulista dei leader sulla piazza: il premier Draghi.
Così i due populismi di inizio legislatura si sono andati dissimulando, tutti e due. Salvini s’è trovato a fare i conti con quella sorta di partito del nord, fatto di solidi amministratori locali e quadri politici senza troppi grilli per la testa, che gli ha imposto più miti consigli. E i grillini a loro volta hanno fatto del loro meglio per far dimenticare i fasti (si fa per dire) e gli ardori delle loro prime e più estreme imprese politiche.
Ora, c’è qualcosa di vagamente consolatorio nel vedere gli uni e gli altri imbrigliati in una coalizione che sembra fare a pugni con il loro sentire di appena pochissimi anni fa. Peccato che questa conversione a un certo realismo istituzionale sia avvenuta senza darne troppo conto a nessuno, e soprattutto senza quel briciolo di autocritica che le grandi svolte politiche richiedono ai loro autori. Così, la retorica è rimasta quella di prima e i comportamenti non hanno avuto bisogno di una spiegazione. E anche il blando tentativo di riesumare l’asse gialloverde in occasione del Quirinale non ha sortito gli effetti desiderati né da una parte né dall’altra.
Ci si potrebbe accontentare di questo esito, registrando il fatto che a guidare il paese si trovino oggi le due figure più istituzionali, le meno inclini alla demagogia e al populismo: Mattarella e Draghi, per l’appunto. E a voler infierire sui protagonisti dei primi mesi di legislatura li si potrebbe inchiodate tutti e due al bilancio deludente (altro eufemismo) delle loro gesta.
Eppure il sentimento antipolitico resta ancora nell’aria, nonostante il magro bilancio di questi anni. Alimentato dalle difficoltà economiche, rese molto più acute dalla pandemia. E forse anche sospinto dalle delusioni che i suoi aedi di poco tempo fa si sono lasciati alle spalle. Senza contare che la progressiva radicalizzazione di Giorgia Meloni tende ad occupare lo spazio eventualmente lasciato libero dai dioscuri dell’esperimento gialloverde che fu.
Come ogni crisi che non venga elaborata, anche la doppia crisi che stiamo attraversando -crisi della politica e dell’antipolitica, insieme- avrebbe bisogno di una spiegazione, di un riconoscimento, di un’onesta ammissione di responsabilità da cui cercare di ripartire. Tutte cose che sembrano mancare all’appello.
I populisti di quattro anni fa appaiono alle corde, questo sì. Ma il populismo corre ancora nelle vene del paese. E fino a quando si farà finta di niente, rischierà di cercare fortuna in altri tentativi e altri interpreti dei suoi cattivi umori. La strada perché la politica risalga la sua china è ancora lunga e piuttosto scoscesa”. (di Marco Follini)