(Adnkronos) – “Non emerge oltre ogni ragionevole dubbio la responsabilità penale dell’imputata per il delitto di omicidio volontario pluriaggravato alla stessa contestato, mancando la prova che Massimo Montanari sia deceduto per morte violenta, e non per causa naturale, e dunque della sussistenza stessa del fatto”. Lo scrive la Corte d’Assise d’appello di Bologna nelle motivazioni – depositate oggi – della sentenza pronunciata il 25 ottobre scorso, con cui l’infermiera di Lugo Daniela Poggiali è stata assolta dall’accusa di omicidio volontario del paziente di 95 anni Massimo Montanari, morto in ospedale il 12 marzo 2014. La sentenza ha riformato la condanna in primo grado a 30 anni di reclusione, emessa dal Gup di Ravenna Janos Barlotti il 15 dicembre 2020.
Solo ad abundantiam, osserva la Corte, “appare opportuno ricordare anche che il giudice di primo grado, nell’assoluta assenza di prova circa la causa di morte di Massimo Montanari, si spinge a ipotizzare che la sostanza in ipotesi di accusa iniettata a scopo omicidiario dalla Poggiali non sia cloruro di potassio (come ventilato in capo di imputazione, seppure in termini di verosimiglianza), ma insulina in dose non terapeutica, o ancora morfina o altra sostanza non identificata. In proposito si osserva che anche le modalità della morte di Massimo Montanari, così come ricostruita, non appaiono compatibili né con una somministrazione in bolo di potassio, che notoriamente provoca forti dolori (mentre Montanari si è spento senza un lamento), né con una overdose di insulina, che al contrario provoca uno stato di coma ipoglicemico, non riscontrato nel caso in esame, successivamente seguito da morte. In assenza, dunque, di prove dirimenti nel senso di una morte per intervento esogeno, la causa di morte naturale resta nel caso di Massimo Montanari l’alternativa più plausibile e verosimile”.
Non c’è prova che l’infermiera Daniela Poggiali effettuò un’iniezione letale. In particolare, secondo la Corte, non è provata “oltre ogni ragionevole dubbio la circostanza che la Poggiali effettuò a Montanari una iniezione non prescritta né giustificata da alcuna necessità terapeutica pochi istanti prima della morte, non potendo costituire dunque indizio, per mancanza del requisito della certezza”. I giudici osservano anche che “le due ulteriori circostanze relative all’essersi la Poggiali sostituita alla Granata (collega, ndr.) nelle mansioni da svolgere nel reparto, dove Montanari era ricoverato quella notte, e all’essere la Poggiali rientrata nella stanza di Montanari, di cui constatava il decesso, pur provate, non siano tali da costituire indizio grave e preciso dell’azione omicidiaria, essendo prive di intrinseca capacità dimostrativa (che consenta cioè di far derivare con una certa probabilità il fatto ignoto da quello noto), nonché prive di specificità, univocità e impossibilità di diversa interpretazione, altrettanto o più verosimile, e ciò anche in una valutazione globale di insieme”.
“Non può dunque ritenersi provato – si legge nelle motivazioni della sentenza – né che la Poggiali insistette con la Granata per sostituirsi a lei nel turno nel reparto D allo scopo di uccidere Montanari, né che la stessa imputata praticò al medesimo una iniezione letale, né infine che la stessa tornò nella stanza del predetto allo scopo di verificarne il decesso”.
“Se non vi è motivo di dubitare della sussistenza delle minacce che l’imputata avrebbe cinque anni prima del fatto pronunciato ai danni di Montanari (il paziente morto, ndr.) e della sua segretaria, per accadimenti concernenti il rapporto di lavoro del suo compagno, ciò non dimostra in alcun modo che la Poggiali diede seguito a quelle minacce così risalenti, e relative fra l’altro a contrasti ormai risolti”. Peraltro, osserva la Corte, “da un lato le predette minacce non furono nemmeno oggetto di formale querela, segno che non furono considerate di particolare allarme, e dall’altro lato Montanari era spesso stato in cura presso l’ospedale di Lugo, anche negli anni successivi alle minacce, senza che nulla accadesse”.
“A tale difetto di prova circa la condotta materiale tenuta dall’imputata nei confronti di Montanari la sera del decesso, non possono in alcun modo supplire né l’esistenza di un possibile movente, né la controversa personalità dell’imputata, né i dati statistici”, sottolineano i giudici.
“La ricostruzione della personalità dell’imputata per il tramite delle testimonianze delle colleghe e dei medici del nosocomio, delle famigerate fotografie che ritraggono l’imputata in pose irridenti accanto al cadavere di una paziente, ed infine delle condanne definitive per peculato e furto a suo carico, non appare in alcun modo risolutiva circa la condotta delittuosa”.
“Si può essere pessime colleghe, avere il gusto del macabro e pochi freni morali ed essere autrici di ripetuti furti senza per questo essere un’assassina, e, ancor più specificamente (di questa specifica morte stiamo discorrendo), senza essere l’assassina di Massimo Montanari – scrive la Corte – Suggestive, ma insufficienti a fungere da indizio, e ancor meno da prova, appaiono le ‘voci’ di presunte morti di pazienti, dopo che se ne era fatta carico la Poggiali con frasi sibilline come ‘qua ci penso io’ (quali pazienti? Tutte le indagini eseguite nei confronti della Poggiali in relazione ad altri decessi nel medesimo ospedale non hanno portato ad alcun riscontro).
Ancor meno pregnanti i ‘chiacchiericci’ (così definiti dalla teste Pitotto, v. pag. 17 sentenza di primo grado) relativi a presunti ‘dispetti’ destinati alle OSS che avrebbero preso in carico dopo l’imputata pazienti non autosuffìcienti a cui la Poggiali somministrava di proposito lassativi in dosi eccessive, o all’uso disinvolto che l’imputata avrebbe fatto di calmanti per sedare i pazienti, specie nelle ore notturne”.
“Non possono in alcuna maniera supplire alle gravi carenze probatorie circa la condotta tenuta della Poggiali la sera del supposto delitto le statistiche, ritenute ‘agghiaccianti’ dal giudice di prime cure, che attesterebbero una mortalità dei pazienti aumentata durante i turni coperti dall’imputata”. Sul punto la Corte d’Appello ha incaricato un proprio perito. “L’approfondimento istruttorio ha portato il perito ad affermare che anche variando il punto di vista sull’analisi statistica, effettuando l’analisi in diversi modi, e tenendo conto di alcuni fattori confondenti noti e misurabili, sia costantemente ragionevole affermare che vi sia una sostanziale associazione positiva tra il tasso di mortalità registrato e lo stato in servizio dell’imputata”, si legge nelle motivazioni. Tuttavia, “nonostante l’esito della perizia inerente ai dati di merito”, lo stesso perito, si legge nelle motivazioni, “conclude – in accordo pieno con i consulenti della difesa, e senza sostanziali obiezioni sul punto neppure da parte dei consulenti dell’accusa – che tale analisi non possa, per la natura dei dati, avere alcun valore di tipo causale, non essendovi alcun elemento nei dati a disposizione che possa portare a un addebito diretto dei decessi in eccesso all’imputata, essendovi al contrario inevitabilmente diverse spiegazioni possibili dell’effetto mostrato dai dati a disposizione”.
Insomma, “nell’assenza di un solido quadro indiziario relativo all’evento specifico sottoposto all’esame della Corte, il dato statistico, pur sfavorevole alla posizione dell’imputata, non è in alcun modo in grado di integrare la carenza probatoria e di portare ad un differente esito decisorio”.