“Nel pieno della campagna istituzionale del 1946 un giovane e scanzonato Lino Iannuzzi prese a girare per i paesi del Mezzogiorno facendo una fantasiosa campagna a favore della monarchia. Peccato che il re invocato in quei comizi fosse il Borbone e non il Savoia. Così Iannuzzi si prodigava a dileggiare la causa monarchica e a cercare di favorire quella repubblicana.
Ora, parafrasando Iannuzzi, verrebbe la tentazione di invocare un presidente ‘impopolare’ per il prossimo Quirinale. E cioè un capo dello Stato che non cerchi l’applauso della gente, ma si limiti ad amministrare con misura e discrezione le prerogative che la Costituzione gli assegna. Prerogative che non sono affatto da poco, ma che appunto richiedono una particolare sobrietà se si vuole restare dentro i confini della tradizione repubblicana.
I capi dello Stato eletti fin qui hanno sempre rispettato quei confini, garantendo insieme l’unità del paese e l’equilibrio delle sue forze. E lo hanno fatto guadagnandone anche per se stessi una discreta popolarità. Il caso di Mattarella, entrato al Quirinale in punta di piedi e che ora si appresta a uscirne (irrevocabilmente, a quanto pare) tra gli applausi del pubblico della Scala, riassume molte altre storie e figure che non per caso oggi vengono rievocate -quasi tutte- con un misto di ammirazione e di nostalgia.
In passato, come si ricorderà, i capi dello Stato venivano scelti per non fare troppo ombra ai veri padroni del vapore di quel tempo: i partiti e i loro leader. E infatti quasi tutti tendevano a evitare, soprattutto agli inizi, di sovrapporre al prestigio della loro carica un di più di protagonismo che avrebbe potuto incrinare l’equilibrio di quel sistema. Col tempo, però, questo costume ha finito per aggiornarsi. E mano a mano che gli inquilini del Quirinale prendevano confidenza con il loro ruolo, quasi sempre il loro indice di popolarità tendeva a crescere e il carattere delle loro esternazioni a farsi lievemente più assertivo.
Fin qui, tra altri e bassi, un certo bilanciamento è stato tutto sommato rispettato. Infatti, il protagonismo politico dei capi di Stato che si sono succeduti ha modificato qualche consuetudine ma non ha mai sovvertito quell’equilibrio che i padri della patria avevano tratteggiato e i loro figli cercato di conservare. Certo, ci sono stati a vario titolo protagonismi politici e mediatici più spiccati (Pertini, Cossiga) e singoli gesti presidenziali più o meno condivisi/bili, senza però che nessuno ravvisasse il rischio di una deriva monarchica dei nostri istituti repubblicani.
Ora, però, c’è un dato nuovo che affiora. Ed è che l’invocazione di una repubblica presidenziale comincia a fare proseliti. E’ la bandiera di Giorgia Meloni e della sua destra, come s’è appena visto. E gode di un favore largo presso tanta parte dell’opinione pubblica, come ha segnalato l’ultimo sondaggio di Ilvo Diamanti. Così, una suggestione che era sempre rimasta ai margini della vita repubblicana comincia ora a guadagnare terreno. Fortunatamente, secondo alcuni. Dannatamente, secondo altri (tra i quali il sottoscritto).
Tutte cose di cui si può discutere, s’intende. Ma che richiedono come minimo un prudente dosaggio dei poteri. Infatti non ci potrebbe essere nulla di peggio che arrivare a una forma di presidenzialismo surrettizio, preterintenzionale, forse addirittura quasi casuale. Lasciando le leggi così come sono. E nel frattempo imboccando una strada priva di tutte quelle garanzie e tutti quei contrappesi che solitamente accompagnano un capo dello Stato eletto dal popolo e non più dal Parlamento.
Il rischio è quello di mettere sul trono un presidente taumaturgo, a cui l’immaginazione popolare finisca con l’affidare un compito che vada ben oltre i suoi poteri. Con la possibilità che poi quel presidente sia indotto o a fare troppo per non deludere o a dar l’idea di aver fatto troppo poco appunto perché da lui ci si aspettava troppo.
Per questo viene da sperare in un presidente popolare ma non troppo, e che sia autorevole senza andare in cerca di altri poteri. Una certa discrezione nell’esercitarli, lo abbiamo visto, fa parte di quella virtù quirinalizia che andiamo cercando”. (di Marco Follini)