“Di me si potrebbe pensare chissà cosa, visto il motivo per cui sono in carcere, ma non sono un ‘mostro’, come mi hanno sempre descritto. Il Luca di oggi è un uomo che magari fa meno notizia, rispetto al ‘Lupo’, ma che comunque c’è, esiste, sta facendo il massimo per scontare il debito che ha con la società civile e si impegna nella sua sfida”. Luca Traini, che il 3 febbraio 2018, in auto per le strade di Macerata, sparò a sei persone di colore per “vendicare” l’omicidio di Pamela Mastropietro, avvenuto pochi giorni prima ad opera del nigeriano Innocent Oseghale, parla per la prima volta dal carcere di Montacuto, ad Ancona. Lo fa in esclusiva all’Adnkronos con una lettera di tredici pagine scritta a mano, in stampatello (“una scrittura – dice – che risente di stanchezza psicologica e fisica”).
“Sono in carcere ormai da quasi quattro anni e vorrei che il mondo capisse che sto facendo il massimo per scontare il debito che ho con la società civile – continua – Spiegare cos’è, com’è il carcere a chi non ha mai avuto il ‘piacere’ di esserci passato, non è facile. Le condizioni in cui versano gli istituti penitenziari in Italia sono quelle largamente denunciate dai Radicali e dai sindacati della polizia penitenziaria e per cui abbiamo noi, lo Stato italiano, subito multe e rimproveri dalla Comunità Europea. In questo contesto, in questo stato di cose oggettivo, ho comunque trovato grande umanità sia da parte degli agenti penitenziari sia da parte dei detenuti stessi”.
E aggiunge: “Chiaramente il mio reato all’inizio era odioso per una larga parte della popolazione carceraria, quella che sta scontando condanne per reati di droga. Con il tempo la serietà e la correttezza con cui sto affrontando la detenzione, mi ha fatto acquisire il rispetto da parte di tutti. Per quanto riguarda me stesso, non ho mai negato la gravità del mio gesto e ne ho accettato le conseguenze fin da subito, fin dall’immediato, quando fui io a tornare indietro e, andando al monumento dei caduti a Macerata, a consegnarmi ai carabinieri”.
Luca, poi, calca la mano sul foglio, il tratto nero si fa più deciso quando dice che “una certa ideologia che avevo e che ho manifestato in maniera folkloristica, altro non era che un’immagine fittizia (virtuale) che mi ero creato a scudo, come un contrasto con il brutto del mondo – continua riferendosi alle idee che lo avevano portato ad armarsi contro persone scelte a caso, solo per il colore della pelle uguale a quello dell’assassino della 18enne romana – Lo stesso per il fisico: al mio ingresso in carcere, nel 2018, pesavo 132 kg di muscoli. Un colosso sviluppato in anni di palestra, per sfuggire al bullismo scolastico subito perché ero grasso. Andavo in palestra a fare i pesi per sfogarmi quotidianamente dalle delusioni in famiglia, al lavoro, le delusioni della vita. Ora sono molto cambiato. Preferisco un fisico atletico, non per apparire. E forse l’evoluzione della mia anima ha fatto evolvere anche il mio corpo”.
Condannato a 12 anni di reclusione, senza sconti né attenuanti, Luca racconta all’Adnkronos: “Qui in carcere faccio un po’ di palestra, un po’ di sport e in autonomia, da autodidatta, faccio yoga e meditazione buddista, che ben si abbina alla preghiera cristiana. I miei hobby quotidiani, oltre alla ginnastica, sono leggere, ascoltare musica rock, soul e jazz. Poi scrivo moltissime lettere, leggo libri di ogni genere e svolgo le mansioni di cura della mia stanza, come pulire, lavare i vestiti, a volte cucinare, in alternativa al cibo che mi portano da casa. Tutto questo quando sono a riposo dal lavoro. Da più di un anno, infatti, sono aiuto-magazziniere nel carcere di Montacuto, un lavoro di responsabilità e fiducia che il governo del carcere mi ha affidato. Si sta a contatto con tutti, sia detenuti che appuntati, e comunque io sono in una sezione con detenuti di tutte le etnie, italiani, pakistani, albanesi, africani, e non ho mai avuto problemi né li ho creati. Non ho mai avuto rapporti disciplinari in quattro anni. Seguo i corsi, le attività di reinserimento, faccio il massimo per far capire che in 32 anni ho sempre lavorato e seguito le regole”.
E poi torna, ancora una volta, a quel 3 febbraio di 4 anni fa: “Una volta sono esploso. Una sola volta (gravemente) la mia mente ha staccato la spina. Ora, ciò che è stato mi è servito per capire dove sbagliavo nella mia vita. Grazie a Dio non ci sono state conseguenze più gravi di quanto già non lo siano stati la sparatoria in sé e i ragazzi feriti”. “Paradossalmente, quando ero libero, non avevo progetti a lungo termine – scrive Luca Traini – davo tutto per scontato. Mi serviva perdere la libertà, per poterne apprezzare di più il valore da recluso, per apprezzare il valore vero della famiglia, che prima sentivo lontana e a volte inutile nel caos del turbinio quotidiano. Ma da quel 3 febbraio di quattro anni fa la mia famiglia non mi ha mai abbandonato, né materialmente, portandomi cibo e soldi per fare la spesa, né emotivamente. Hanno compreso l’errore la gravità del mio gesto, ma allo stesso tempo hanno compreso che in quel periodo della mia vita non stavo bene di testa. Caso ha voluto che non sia diventato un vero e proprio assassino, nessuno è morto, tutto si può risolvere”.
“Raramente penso al mondo la fuori con occhi di cambiamento, mi sono fatto la mia idea di come sarà tra qualche anno, comunque non rinuncerò mai alla mia voglia di futuro, alla voglia di crescere individualmente come un buon uomo e un buon cittadino, di costruirmi un destino, lavorare sodo, trovare una brava ragazza e mettere su famiglia – confida all’Adnkronos – insomma vivere in pace. Se il sistema mi darà i mezzi e la fiducia per uscire da qui, io farò il massimo per essere un uomo migliore di come sono stato fino ad ora. Il carcere mi ha portato a un alto, altissimo livello di consapevolezza generale e maturazione umana interiore e intellettuale. Non scherzo. Penso di essere l’esempio vivente dell’eccezione che conferma la regola: il carcere raramente riabilita, se uno non vuole, ma se uno lo vuole, come nel mio caso, si può imboccare la strada giusta. Lo faccio sia per me, per riprendermi la mia vita, sia per le persone che mi amano, familiari, amici, persone che credono in me”.
“Sul breve percorso voglio laurearmi in carcere, avevo iniziato a studiare, ma poi a causa del Covid ho dovuto stoppare – conclude Traini – Magari lavorare in semilibertà, in libertà vigilata. Vedremo, io farò il massimo. Dal lassù la mia cara mamma e la piccola Pamela mi guidano e mi proteggono”. Perché Luca Traini nella lettera non fatica ad ammettere: “Sì, ho sognato Pamela molte volte, soprattutto all’inizio. L’ho sognata avvolta da tantissima luce. Emanava un calore umano di un’amica che conosco da tanto tempo, sebbene fuori non la conoscessi. La prego sempre, prego che possa trovare la pace. Seguirò con ansia e con molta attenzione la Cassazione di Oseghale a gennaio 2022. Spererò nel lavoro della giustizia. Dio illuminerà la via. Probabilmente, quando uscirò, andrò a trovare la povera Pamela al Verano, così come andrò a trovare mia mamma”.
(di Silvia Mancinelli)