(dall’inviata Elvira Terranova) – Cinque giorni prima della strage di Via D’Amelio, il giudice Paolo Borsellino partecipò a un incontro alla Procura di Palermo. In quell’occasione si parlò anche dell’inchiesta ‘mafia e appalti’, di cui il magistrato si era occupato a lungo. “Ma in quell’incontro il pm Guido Lo Forte nascose al giudice di avere firmato, appena il giorno prima, l’archiviazione dell’inchiesta”. La denuncia arriva nell’aula B del Tribunale di Caltanissetta, dove si celebra il processo sul depistaggio sulla strage di Via D’Amelio, dall’avvocato Fabio Trizzino, legale di parte civile della famiglia Borsellino, ma anche marito di Lucia Borsellino, la figlia maggiore del giudice ucciso nell’attentato del 19 luglio del 1992. Trizzino si è detto contrario alla richiesta della difesa dei poliziotti Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, imputati insieme con un altro poliziotto, Mario Bo, di calunnia aggravata, di sentire in aula, i giudici Roberto Scarpinato, Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone. Proprio sull’inchiesta mafia e appalti. Dunque, il dossier torna prepotentemente nel processo. Come era già accaduto negli altri cinque dibattimenti dedicati alle stragi mafiose del 1992.
“Così come è stata formulata, la richiesta è inaccettabile, dal mio punto di vista – dice l’avvocato Fabio Trizzino – Perché questa è un tema alla mia famiglia carissimo, ma non è questa la sede per sviluppare una eventuale rilettura. Se c’è la volontà di sviluppare il tema mafia e appalti, basta prestare il consenso ad acquisire due atti”. E aggiunge: “Parlo dell’ordinanza di archiviazione del giudice Lo Forte (su mafia e appalti ndr) e la richiesta mandanti occulti bis”. “Se mi si dice che vogliamo capire il perché in quella riunione si tace a Borsellino la richiesta di archiviazione, questo allora limita la circostanza – dice l’avvocato Trizzino – ma se dobbiamo fare il processo ‘mafia e appalti’ qui, francamente, non ha senso”. Alla fine, in chiusura di udienza, dopo una breve camera di consiglio, il Tribunale respinge la richiesta di revoca avanzata dalla difesa di parte civile, ma anche dalla Procura, rappresentata in aula dai pm Maurizio Bonaccorso e Stefano Luciani, e conferma le testimonianze del procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, dell’ex Procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e dell’ex Procuratore di Messina Guido Lo Forte. La deposizione dei tre è prevista per la prossima udienza, il prossimo 26 novembre.
Ma cosa accadde in quella riunione del 14 luglio del 1992, cioè cinque giorni prima della strage di Via D’Amelio, di cui parla l’avvocato della famiglia Borsellino? Era un briefing dei magistrati della Procura di Palermo, e in quella occasione Paolo Borsellino chiese notizie sull’inchiesta. Dalle successive dichiarazioni al Csm da parte dei magistrati presenti a quella riunione, emerse che nessuno disse a Borsellino che era già stata firmata la proposta dell’archiviazione. E Guido Lo Forte, che la firmò, era tra i presenti. Raggiunto al telefono dall’Adnkronos, per una replica, l’ex magistrato, oggi in pensione, si limita a dire: “Dovendo parlare di questo argomento al processo, come ho appreso, preferisco non dire nulla, al momento. Lo farò in aula”. Anche se ha aggiunto: “Fino a questo momento, a dire il vero, non ho ancora ricevuto alcuna citazione…”.
L’indagine ‘mafia e appalti’ fu fortemente voluta da Giovanni Falcone, e poi ripresa da Borsellino, e riguardava le connessioni tra politici, imprenditori e mafiosi. L’inchiesta fu condotta, tra la fine degli anni ’80 e il 1992, dai carabinieri del Ros guidati dall’allora colonnello Mario Mori e dal capitano Giuseppe De Donno. Entrambi sono stati assolti di recente, in appello, nel processo sulla trattativa Stato-Mafia di Palermo. Dall’indagine emerse, per la prima volta, l’esistenza di un comitato d’affari, gestito dalla mafia e con profondi legami con esponenti della politica e dell’imprenditoria di rilievo nazionale, per la spartizione degli appalti pubblici in Sicilia”. “La testimonianza di Scarpinato non e’ rilevante – ha continuato il legale dei Borsellino- perché non presente alla riunione, mentre Pignatone non era più titolare, a quel tempo, del fascicolo. Sono elementi che vanno riletti per approfondire, non in questa sede, ma in altre sedi, il comportamento di questi magistrati. Dunque, per me, così come è stata formulata la richiesta, dal mio punto di vista è inaccettabile”. Richiesta respinta.
L’avvocato Trizzino ha chiesto, quindi, nell’udienza di oggi, “l’acquisizione del documento in cui i giudici Francesco Messineo, Renato Di Natale, Francesco Paolo Giordano danno conto e ragione di tutte le vicende che hanno riguardato le indagini fatte a Caltanissetta in relazione alla gestione del dossier mafia e appalti”. “Inoltre le vicende connesse a ‘mafia e appalti’ sono state di una complessità tale che per riuscire a barcamenarsi… altro che un semplice esame – dice il legale – bisognerebbe aprire un processo a parte”. “Di processi sulla strage di via D’Amelio ne sono stati fatti cinque. E sembra quasi che l’importanza del filone mafia e appalti non sia mai stato sviscerato nei precedenti procedimenti, ma non è cosi. Nella sentenza del processo ‘Borsellino ter’, cui si richiama la sentenza quater, da un ampio spaccato dell’importanza ai fini del movente dell’eventuale accelerazione della strage di via D’Amelio”.”Questo tema di prove è come un oceano che si apre di fronte a noi – dice ancora l’avvocato Fabio Trizzino – Anche queste parti civili, che vorrebbero approfondito questo aspetto, ma riteniamo che ci siano due avvenimenti che dovrebbero portare a una rilettura di quegli avvenimenti, ma non in questa sede. E sto parlando delle dichiarazioni tardive di Massimo Russo e Alessandra Camassa in cui Borsellino definì il suo ufficio un ‘nido di vipere'”.
“Il secondo elemento di novità è la desecretazione degli atti del Csm al seguito dei quali vennero sentiti i pm che si ribellarono al Procuratore Giammanco che ci parlarono di una riunione in cui Borsellino chiese a Guido Lo Forte degli approfondimenti e Lo Forte gli nascose che il 13 aveva firmato una archiviazione”. Oggi era anche prevista la deposizione dell’ex Procuratore aggiunto Antonio Ingroia, ma ha fatto sapere di essere all’estero fino al prossimo 10 dicembre, e dunque, è saltata la sua audizione, chiesta dalla Procura di Palermo. E’, invece, venuto l’avvocato Luigi Li Gotti, il primo legale del falso pentito Vincenzo Scarantino. Rispondendo alle domande dell’avvocato Giuseppe Panepinto, che difende il poliziotto Mario Bo, ha ripercorso i due interrogatori dell’ex picciotto della Guadagna che ha accusato falsamente diverse persone della strage di via D’Amelio, tutte condannate all’ergastolo, salvo poi ritrattare.
“Ricordo che Vincenzo Scarantino era un fiume in piena durante gli interrogatori, parlava ad una velocità incredibile e senza pause, non c’erano quasi domande. Erano pochissime”, ha detto Li Gotti. Era il giugno del 1994. E durante una pausa caffè, Scarantino disse al suo legale, che ha difeso Scarantino per soli tre mesi che lo Stato gli avrebbe promesso la somma di 400 milioni di vecchie lire. “Mi disse anche che gli fu promesso che sarebbe uscito dal carcere – racconta Li Gotti – e io, con molta pazienza, esaurii il mio dovere e dissi a Scarantino che erano tutte frottole, perché ciò che poteva avere dallo Stato era previsto dalla legge e che si scordasse la promessa di 400 milioni di lire. E gli spiegai degli altri collaboratori, sia sul trattamento sanzionatorio”. Li Gotti ha anche ricordato che in quel periodo, nel 1994, il periodo del dopo stragi, “c’era diffidenza sui legali che difendevano i collaboratori di giustizia. “Durò solo sei mesi la difesa di Scarantino. Nell’autunno del 1994 Li Gotti abbandonò la difesa del falso pentito.
Sempre sollecitato dall’avvocato Panepinto, Li Gotti, ha detto di non avere “mai assistito a suggerimenti di risposte a Scarantino, anche perché, per mia prassi deontologica, non avrei firmato il verbale”. Secondo la Procura, invece, Scarantino sarebbe stato indottrinato durante gli interrogatori per accusare falsamente delle persone. Lo stesso ex collaboratore, oggi fuori dal programma di protezione, in diversi interrogatori Scarantino ha raccontato di avere subito “torture” e “maltrattamenti” nel carcere di Pianosa. “Nel carcere, su di me – ha raccontato Scarantino – avevano carta bianca e potevano fare, m’ammazzavano, mi mettevano nu cungelaturi, poi mi scioglievano” e poi ha aggiunto che ”mi facevano le punture che io pareu u zombi, quannu camminavu avevu persu ogni minimo di dignità, aveva persu tutta a dignità che un essere umano poteva aviri, non avea nessuna cosa”. In una delle recenti udienze, uno degli imputati, Fabrizio Mattei, ha ribadito con forza, fino quasi a gridarlo tra le lacrime, “di non avere mai indottrinato” l’ex pentito Vincenzo Scarantino prima degli interrogatori. Di non avere “mai dato” all’ex picciotto della Guadagna “dei suggerimenti” o “di avere scritto appunti sui verbali”. E di “non avere mai indagato sulla strage di Via D’Amelio”.
Li Gotti ricorda ancora come in quel periodo ci “fosse un clima generale di perplessità sulle dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, era un fatto reale. C’erano molte perplessità. Non vidi soddisfazione per questa svolta per la strage di via D’Amelio. Che era ciò che anche io stavo vivendo. Perplessità dimostrate reiteratamente”. E racconta un aneddoto: “Nel viaggio di ritorno dal carcere di Pianosa, sull’elicottero, a parte il rumore, perché bisognava parlare con le cuffie, c’era molta stanchezza e quindi non si parlò affatto. A Ilda Boccassini e al dottore Petralia non parlai dell’interrogatorio e non furono fatte osservazioni”. E poi ha sottolineato che anche il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia, parlando di Vincenzo Scarantino, aveva sostenuto che Scarantino “non era un ‘picciotto’ di Cosa nostra, che non era un uomo d’onore”. “Ricordo che disse: ‘Lo conosco, lo mandavamo a comprare le sigarette’, e ricordo che queste sue dichiarazioni non colsero di sorpresa nessuno. Nessuno”. Nel 1995 la Procura di Caltanissetta sottopose Scarantino a un confronto con il collaboratore Marino Mannoia. Già allora Mannoia aveva concluso, e riferito agli inquirenti, rafforzando quanto detto da altri collaboratori, che il ”picciotto della Guadagna” non era un mafioso. Il processo è stato rinviato al prossimo 26 novembre per sentire i giudici Scarpinato, Lo Forte e Pignatone.