E’ la donna la protagonista quest’anno della Giornata mondiale ed europea contro la pena di morte. “Vittima invisibile” delle esecuzioni capitali, doppiamente repressa “è la più indifesa soprattutto nelle società di diritto islamico dove il ‘prezzo del sangue’ (cioè il corrispettivo in denaro che i parenti del condannato pagano alle vittime), per le donne vale la metà”. Sono poche le esecuzioni al femminile nel mondo, “al 99,9% le vittime della pena capitale sono infatti uomini, ma bisogna aprire gli occhi, illuminare”. Ne parla con l’Adnkronos Sergio D’Elia, segretario di Nessuno Tocchi Caino che spiega: “Di solito le donne finiscono sul patibolo per omicidio, non altri reati e generalmente è legittima difesa. Ma non si salvano, perché le circostanze attenuanti non sono considerate. La repressione è dunque doppia”.
Oltre alla discriminazione basata sul sesso e sul genere, “adesso che la tendenza generale va verso l’abolizione universale”, D’Elia indica “la nostra nuova frontiera: il superamento della morte per pena e la dimensione carcerocentrica dell’amministrazione della giustizia. Perché l’antidoto al crimine è costruire scuole, non carceri”. Dall’ottava risoluzione biennale dell’’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per una moratoria universale della pena di morte “il trend è inarrestabile – rimarca – Ancora sussiste solo in regimi illberali, dove è assente lo stato di diritto. Ma il carcere resta un luogo mortifero, in sui si concentrano altri istituti ormai superati” e non si consuma “una giustizia che riconcilia e ripara ma quella pena che ti fa morire, per malattia, perdita dei sensi fondamentali come la vista nelle sezioni del 41-bis..”.
“Il nosocomio, il manicomio, l’ospedale per malati terminali – osserva – si concentrano nel carcere che va riformato o abolito”. “Bisogna ripartire dai processi formativi – sollecita D’Elia – L’ideale sarebbe costruire scuole, non carceri, come antidoto al crimine. Si vuole investire sull’edilizia? Deve essere quella scolastica non delle carceri. Quanto più i ragazzi andranno a scuola quanto meno andranno in carcere. E’ matematico. Si guardi alle recidive, alla provenienza delle popolazioni carcerarie ed il quadro – conclude – sarà chiaro”.