No allo spegnimento dell’area a caldo dello stabilimento ex Ilva di Taranto e degli impianti connessi, la cui attività produttiva proseguirà con regolarità. Lo ha stabilito il Consiglio di Stato che ha accolto il ricorso presentato da Acciaierie d’Italia annullando la sentenza del Tar di Lecce n.249/2021. L’azienda, spiegano fonti aziendali, continuerà pertanto a operare.
“Alla luce del pronunciamento del Consiglio di Stato sull’ex Ilva, che chiarisce il quadro operativo e giuridico, il governo procederà in modo spedito su un piano industriale ambientalmente compatibile e nel rispetto della salute delle persone”, commenta il ministro dello sviluppo economico Giancarlo Giorgetti. “Obiettivo – spiega in una nota- è rispondere alle esigenze dello sviluppo della filiera nazionale dell’acciaio accogliendo la filosofia del Pnrr recentemente approvato”, conclude.
LA SENTENZA – L’ordinanza del sindaco di Taranto non è legittima per assenza di pericolo imminente. Lo stabilisce la Sezione IV del Consiglio di Stato con la sentenza n. 4802 di oggi , con la quale accogliendo gli appelli di Arcelor Mittal S.p.a. e di Ilva S.p.a. in amministrazione straordinaria, ha annullato l’ordinanza n. 15 del 27 febbraio 2020, con cui il Sindaco di Taranto aveva ordinato loro, nelle rispettive qualità di gestore e proprietario dello stabilimento siderurgico “ex Ilva”, di individuare entro 60 giorni gli impianti interessati da emissioni inquinanti e rimuoverne le eventuali criticità, e qualora ciò non fosse avvenuto di procedere nei 60 giorni successivi alla “sospensione/fermata” delle attività dello stabilimento.
L’ordinanza era stata emessa, nell’esercizio dei poteri di necessità e urgenza del Sindaco a tutela della salute della cittadinanza, a seguito di episodi di emissioni di fumi e gas verificatisi nell’agosto 2019 e nel febbraio 2020 e delle successive verifiche ambientali e sanitarie. Il Tar della Puglia, sezione staccata di Lecce, pronunciandosi in primo grado sul ricorso delle due società, lo aveva respinto a seguito di un’approfondita istruttoria.
In particolare, spiega il Consiglio di Stato, la Sezione non ha condiviso la tesi principale delle società appellanti, secondo cui deve escludersi ogni spazio di intervento del Sindaco in quanto i rimedi predisposti dall’ordinamento, nell’ambito dell’autorizzazione integrata ambientale (Aia) che assiste l’attività svolta nello stabilimento, sarebbero idonei a far fronte a qualunque possibile inconveniente. Tuttavia, ha ritenuto che quel complesso di rimedi (compresi i poteri d’urgenza già attribuiti al Comune dal T.U. sanitario del 1934, i rimedi connessi all’AIA che prevedono l’intervento del Ministero della transizione ecologica e le norme speciali adottate per l’Ilva dal 2012 in poi) sia tale da limitare il potere di ordinanza del Sindaco, già per sua natura “residuale”, alle sole situazioni eccezionali in cui sia comprovata l’inadeguatezza di quei rimedi a fronteggiare particolari e imminenti situazioni di pericolo per la salute pubblica.
Premesso che l’accertamento giudiziale doveva concentrarsi unicamente sulla legittimità dell’ordinanza del Sindaco senza poter estendersi alle annose e travagliate vicende che hanno interessato lo stabilimento “ex Ilva” (oggetto di un piano di adeguamento adottato in base alla legislazione speciale post-2012, le cui tempistiche sono già state considerate legittime dal Consiglio di Stato con due pareri del 2019), la Sezione ha ritenuto che in concreto il potere di ordinanza d’urgenza fosse stato esercitato in assenza dei presupposti di legge, non emergendo la sussistenza di “fatti, elementi o circostanze tali da evidenziare e provare adeguatamente che il pericolo di reiterazione degli eventi emissivi fosse talmente imminente da giustificare l’ordinanza contingibile e urgente, oppure che il pericolo paventato comportasse un aggravamento della situazione sanitaria in essere nella città di Taranto, tale da indurre ad anticipare la tempistica prefissata per la realizzazione delle migliorie” dell’impianto.
Pertanto, prosegue il Consiglio di Stato, pur senza negare la grave situazione ambientale e sanitaria da tempo esistente nella città di Taranto, già al centro di vicende giudiziarie penali e di una sentenza di condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti Umani (relativa però alla precedente gestione dello stabilimento, rispetto alla quale le misure intraprese negli ultimi anni hanno segnato “una linea di discontinuità”), si è concluso che “nella specie il potere di ordinanza abbia finito per sovrapporsi alle modalità con le quali, ordinariamente, si gestiscono e si fronteggiano le situazioni di inquinamento ambientale e di rischio sanitario, per quegli stabilimenti produttivi abilitati dall’A.I.A.”, non essendosi evidenziato un pericolo “ulteriore” rispetto a quello ordinariamente collegato allo svolgimento dell’attività industriale.
Correlativamente, pur non condividendo l’impostazione delle società appellanti le quali imputavano al Tar leccese di aver debordato dal proprio ambito di giudizio, finendo per occuparsi dell’idoneità e adeguatezza delle misure connesse all’Aia anziché della legittimità dell’ordinanza del Sindaco (laddove invece la verifica dell’efficacia di tali misure era proprio finalizzata all’accertamento circa la sussistenza o meno dei presupposti per l’intervento del Sindaco), la Sezione ha ritenuto che il rigetto del ricorso in primo grado non trovasse conforto neanche nelle risultanze dell’istruttoria svolta dallo stesso Tar, laddove da un lato è emerso che i più recenti episodi emissivi non sono dovuti a difetti strutturali dell’impianto, dall’altro è stata acquisita una congerie di dati a volte non pertinenti e comunque non tali da provare in modo certo l’esistenza di particolari anomalie tali da costituire serio e imminente pericolo per la popolazione. Anche sotto tale profilo, l’ordinanza risulta quindi emessa “senza che vi sia stata un’univoca individuazione delle cause del potenziale pericolo e senza che sia risultata acclarata sufficientemente la probabilità della loro ripetizione”.