Il Green Pass, o certificato Covid digitale europeo come è stato ribattezzato dopo numerose oscillazioni nominalistiche, aiuterà a ripristinare una maggiore libertà di circolazione nell’Ue a partire dal prossimo primo luglio, anche se non è la bacchetta magica che risolverà tutto.
E’ però una “buona notizia” per i cittadini europei, sottolinea il negoziatore del Parlamento Europeo, il socialista spagnolo Fernando Lopez Aguilar, presidente della commissione Libe, che voterà l’accordo raggiunto tra Consiglio e Parlamento sul regolamento la settimana prossima, prima del voto in plenaria tra il 7 e il 10 giugno. Un regolamento, una “legge europea” immediatamente efficace, è comunque meglio dell’alternativa: una Babele di certificati “nazionali”, se non “regionali”, il che vorrebbe dire “confusione, arbitrarietà, insicurezza e discriminazione”.
Il regolamento sarà poi efficace dal primo luglio, una volta approvato dal Consiglio e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale Ue. Viaggiare in Europa in tempo di pandemia di Covid-19 resterà abbastanza complicato, anche se decisamente meno rispetto ad ora e, è la speranza, anche rispetto all’estate del 2020, un “incubo”, come lo definisce Aguilar, che viene dalle Canarie.
La ragione principale di questa complicazione è che l’Ue non è uno Stato federale e ha competenze limitate: le cose possono essere semplificate solo fino a un certo punto. Le competenze restano principalmente nazionali, con 27 Stati membri, e questo comporta inevitabilmente delle complicazioni, anche se il certificato sarà normato da un regolamento, provvedimento che ha forza di legge in tutti gli Stati.
Dall’accordo tra Consiglio e Parlamento è uscita una proposta che, secondo il negoziatore Lopez Aguilar, è decisamente migliore rispetto alla proposta della Commissione e alla posizione negoziale del Consiglio, in ogni “singolo articolo”. Anche se il Consiglio, forte anche della procedura di urgenza decisa per arrivare ad avere il certificato in vigore prima dell’estate (altrimenti rischierebbe di essere pressoché inutile), “non ha mostrato volontà di compromesso” con il Parlamento nel corso dei negoziati.
Il punto di partenza del Consiglio nei negoziati, ha sottolineato Lopez Aguilar, è stato la “rivendicazione delle competenze nazionali per proteggere la salute pubblica, che fa premio su tutto”. Il fatto è che, ha ricordato, mentre il Parlamento Europeo deve per forza “legiferare” a livello Ue, il Consiglio, che rappresenta gli Stati membri, non deve necessariamente farlo, perché, in assenza di un regolamento europeo, ha sempre un “piano B”.
Il Consiglio avrebbe potuto limitarsi ad avere una “miriade” di certificati nazionali, non compatibili gli uni con gli altri né riconosciuti dagli altri Paesi, quando non “certificati regionali”, ricorda Lopez Aguilar.
Il caos, insomma, come quello che si è ripetuto anche quest’inverno con limitazioni di viaggio (test multipli più quarantene) unilaterali imposte da diversi Paesi, che hanno quasi azzerato la libera circolazione nell’Ue, mentre la Commissione, davanti all’arrivo delle varianti, non ha preso iniziative forti per frenare le iniziative degli Stati in questo campo. Una situazione, quella della Babele di certificati, che sarebbe “assolutamente intollerabile e insostenibile”, per Lopez Aguilar.
Questo ‘leverage’ del Consiglio ha pesato nei negoziati: per esempio, il Parlamento non è riuscito ad imporre la gratuità dei test necessari ad ottenere il certificato, se non si è stati vaccinati. Il Consiglio, spiega Lopez Aguilar, “ha resistito fino all’ultimo momento” ad “alleviare i costi individuali dei test”, che ostacolano il “diritto dei cittadini alla libera circolazione”. A questo ‘vulnus’ rimedia parzialmente la Commissione, stanziando ulteriori 100 mln di euro per comprare test rapidi di alta qualità destinati ai lavoratori essenziali.
La mancata gratuità dei test rappresenta oggettivamente una discriminazione, dato che la vaccinazione è gratuita e che ci sono anche persone che non si possono vaccinare. Tuttavia, con il progredire delle vaccinazioni il problema dovrebbe progressivamente ridursi e la Commissione confida che per inizio luglio saranno disponibili in Europa test rapidi “di alta qualità” a prezzi abbordabili.
Il principio di base del certificato è che assicura al titolare un trattamento non discriminatorio, da parte del Paese Ue in cui si reca, rispetto a quello che lo stesso Paese riserva ai suoi cittadini. Un italiano, per esempio, che si reca in Spagna, dovrà essere trattato allo stesso modo degli spagnoli, e viceversa per uno spagnolo che si reca in Italia. Inoltre, il certificato consentirà la verifica dell’autenticità dello stesso in qualsiasi Stato Ue, a prescindere da dove sia stato emesso nell’Unione, tramite una piattaforma digitale fornita dalla Commissione.
Finora 17 Stati membri, più l’Islanda, “hanno testato con successo la connessione con il Gateway dell’Ue”, ha detto il commissario alla Giustizia Didier Reynders. E la presidente Ursula von der Leyen ha chiarito che tecnicamente la Commissione sarà pronta già “da giugno”, mese in cui la stagione delle ferie è già in corso nell’Europa meridionale.
Il certificato, in formato digitale o cartaceo, attesterà tre cose, in alternativa tra loro, per provare che il titolare non rischia di trasmettere il coronavirus Sars-CoV-2. Prima opzione, che con il progredire delle campagne vaccinali dovrebbe diventare prevalente: l’avvenuta vaccinazione del titolare, con vaccini approvati dall’Ema (finora Pfizer/BioNTech, AstraZeneca, Moderna e Janssen, del gruppo J&J, l’unico monodose).
E’ possibile anche attestare la vaccinazione con vaccini non approvati dall’Ema, come Sputnik o Sinopharm, utilizzati in Ungheria per esempio. In questo caso, però, spetterà ai singoli Stati membri decidere se accettarli o meno. Il certificato riporterà il tipo di vaccino inoculato, la data della vaccinazione e il numero di dosi ricevuto.
E’ inoltre facoltà degli Stati membri riconoscere anche la vaccinazione con una singola dose di vaccino, ma non è un obbligo. Pertanto, in teoria potrà capitare che, se una persona vaccinata con una dose vuole entrare in un Paese che riconosce solo la doppia dose (tranne che per J&J, l’unico vaccino monodose), dovrà fare un test. Test che saranno l’unico modo per avere il certificato per i bambini, che ancora non vengono vaccinati.
Seconda opzione: l’essere negativo ad un test, Pcr o rapido antigenico. Anche qui, spetterà agli Stati membri scegliere se accettare i test rapidi, che sono molto meno costosi dei Pcr, ai fini del certificato. Quindi, tenuto anche conto del fatto che la validità del test come prova di negatività è limitato nel tempo, questa libertà che gli Stati conservano potrà provocare difficoltà nella programmazione degli spostamenti. Non sono accettati i test fai-da-te, perché il risultato deve essere certificato.
Terza opzione: essere guariti dalla Covid-19 e quindi teoricamente immuni, almeno per un certo periodo, e non più contagiosi. Per attestare la guarigione è stata scartata l’opzione del test sierologico, che misura la presenza di anticorpi, per mancanza di “certezze scientifiche”, spiega Lopez Aguilar.
Farà fede il tampone Pcr positivo, con una durata massima di 180 giorni a decorrere dalla data dello stesso: il certificato di guarigione viene rilasciato non prima di 11 giorni dopo il tampone positivo. Anche qui, la durata di questo tipo di copertura verrà fissata da ogni singolo Stato membro, altra possibile fonte di complicazioni negli spostamenti. Tra quattro mesi la Commissione rivaluterà i test sierologici, sulla base delle evidenze scientifiche.
Quello della durata della copertura è un punto indeterminato del Green Pass: non viene fissata durata minima né per i test (spetta agli Stati membri decidere) né per i vaccini (qui la decisione verrà presa più avanti, sulla base delle evidenze scientifiche che tuttora mancano, per ragioni di tempo) e neanche per la guarigione (massimo 180 giorni, ma decidono gli Stati).
Malgrado questi limiti, il certificato digitale (il regolamento ha una ‘sunset clause’: durerà un anno a partire dal primo luglio 2021) assicurerà il riconoscimento dei risultati di un test o la vaccinazione effettuata in un altro Stato membro, cosa che ancora oggi, dopo 15 mesi di pandemia in Europa, non è garantita (ci sono Paesi che non riconoscono gli esiti dei tamponi se non sono redatti nella loro lingua).
E soprattutto, come ha spiegato il commissario alla Giustizia Didier Reynders, il regolamento “sottolinea che gli Stati membri dovrebbero astenersi dall’imporre ulteriori restrizioni di viaggio ai titolari del certificato”, come quarantene o test aggiuntivi, “a meno che non siano necessarie e proporzionate per salvaguardare la salute pubblica”. In questo caso, andranno “comunicate con almeno 48 di anticipo” alla Commissione e agli altri Stati membri, ricorda Lopez Aguilar.